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Cinquanta anni fa esatti, la mattina del 30 gennaio 1968, i cittadini americani pensavano che la guerra che stavano in un lontano Paese del Sud- Est asiatico, il Vietnam, fosse a un passo dall’essere vinta. Le critiche si erano moltiplicate nel corso dei due anni precedenti, la percentuale di americani conviti che la partecipazione diretta alla guerra fosse un errore era passata dal 25% del 1965, quando erano iniziati i bombardamenti sul Vietnam del Nord, al 45%. Tuttavia la maggioranza dell’opinione pubblica era ancora convinta che si dovesse colpire più duro per chiudere in fretta la partita: «Vinciamo o andiamocene», era la posizione maggioritaria registrata da un sondaggio del novembre 1965. Le illusioni svanirono nella notte, quando l’esercito del Vietnam del Nord e i partigiani Vietcong sferrarono la principale offensiva di tutta la guerra, attaccando cento città e la stessa capitale del Sud, Saigon. L’attacco era del tutto imprevisto. Si festeggiava il capodanno buddista, il Tet, e vigeva una tacita tregua della quale approfittò il comandante delle truppe del Nord, il generale Giap, per massimizzare l’effetto sorpresa.
A Saigon furono attaccate dai Vietcong le principali sedi isitutuzionali. Un commando si impadronì della radio nazionale e chiamò all’insurrezione la popolazione del Sud. Un altro occupò l’ambasciata Usa, un palazzo la cui costruzione era terminata appena quattro mesi prima. L’occupazione durò poche ore e tutti i 19 Vietcong all’interno dell’ambasciata furono uccisi. Ma l’effetto psicologico fu devastante. Che i partigiani comunisti potessero addirittura entrare nell’ambasciata degli Usa e tenere la posizione anche solo per 7 ore dimostrava che la vittoria sognata era in realtà lontanissima.
Il Tet fu la principale offensiva mossa da entrambe le parti durante il conflitto. Tra esercito del Nord e Vietcong almeno 80mila soldati comunisti parteciparono all’attacco, ma la battaglia decisiva si giocò sul piano dell’immagine e della fiducia nella vittoria degli americani. Su quel fronte i vietnamiti furono immensamente avvantaggiati proprio dalla propaganda alla quale si erano incautamente abbandonati il governo e i generali a stelle e strisce nei mesi precedenti.
Nel 1964 i militari americani in Vietnam erano 16mila. Alla fine dell’anno seguente erano già 120mila ma il comandante in capo, il generale Westmoreland chiedeva un drastico aumento, necessario per “bonificare” il territorio dalla presenza Vietcong, i partigiani comunisti del Sud. Servivano almeno 400mila effettivi, a suo parere, e in effetti i contingenti avrebbero toccato quota 430mila entro l’agosto 1966. L’opzione che passava per l’invasione del Vietnam del Nord era stata scartata per evitare il ripetersi del confronto diretto con le potenze comuniste, Urss e soprattutto Cina, che si era invece verificato nella guerra di Corea. La strategia passava per i bombardamenti sempre più massicci sul Nord e per azioni di controguerriglia nel territorio del Vietnam del Sud.
Per l’opinione pubblica americana era la strategia peggiore. Costava moltissimo, sia in ermini di dollari che di vittime americane. E i bombardamenti creavano problemi etici enormi. Il Movimento contro la guerra era cresciuto in maniera esponenziale nel 1967. In aprile mezzo milione di persone avevano manifestato contro l’impegno militare a New York. Il 21 ottobre dello stesso anno 100mila persone aveva aderito al raduno di protesta di fronte al Lincoln Memorial, a Washington. Metà dei dimostranti era rimasta lì per ore. L’altra metà aveva sfidato il divieto di sfilare verso il Pentagono, si era scontrata per ore con la polizia ed era persino riuscita a occupare una parte del Pentagono. Gli slogan contro il presidente Lyndon B. Johnson come « Hey Hey LBJ, how many kids did you kill today? », risuonavano in ogni campus d’America Il solo modo per tranquillizzare l’opinione pubblica era assicurare una rapida e vittoriosa fine della guerra. Il presidente Johnson, il suo vice Humphrey, il generale Westmoreland, e il suo comandante di campo Bruce Palmer ce la misero tutta. Il vicepresidente annunciò che gli americani conquistavano sempre più ampie porzioni di territorio e stavano vincendo. Il presidente convocò alla Casa Bianca con gran fragore mediatico Westmoreland e al termine del vertice garantì che il 68% della popolazione sudvietnamita era sotto controllo. Palmer jr., fu sbrigativo: «I Vietcong sono stati sconfitti». Ma la frase più infelice, alla luce di quanto sarebbe poi successo la notte del Tet, se la lasciò sfuggire Westmoreland in novembre: «I comunisti non sono più in grado di sferrare un’offensiva su vasta scala. Sono assolutamente certo che mentre nel ‘ 65 stavano vincendo oggi stanno certamente perdendo».
Gli americani si fidarono fino a un certo punto, tuttavia presero atto delle rassicuranti assicurazioni dei vertici civili e militari aspettarono gli eventi. Dovettero attendere poco più di due mesi. La notte del tet l’offensiva arrivò, e su vastissima scala.
Militarmente gli obiettivi di Giap non furono raggiunti. Americani e sudvietnamiti, colti di sorpresa, persero il controllo di molte città ma lo riguadagnarono abbastanza rapidamente, con due importanti eccezioni. La città santa di Huè fu occupata dall’esercito nordivietnamita già la mattina del 31 gennaio. Gli americani e i sudvietnamiti contrattaccarono pochi giorni dopo e la battaglia si prolungò, strada per strada, per un mese. Alla fine gli Usa annunciarono la riconquista di Huè ma in realtà non c’era più molto da riconquistare. La città era completamente distrutta ma soprattutto le perdite tra i marines furono molto alte e l’eco negli usa devastante.
La base di Khe Sanh nell parte più settentrionale del Paese era stata attaccata già prima del Tet, il 21 gennaio. Westmoreland dava alla base masima impoirtanza, convinto che la battaglia in campo aperto potesse risolversi in una “Dien Bien Phu al contrario”, cioè nell’opposto della battaglia che aveva segnato la sconfitta della Francia in Indocina nel 1954. In marzo la Dien Bien Phu era ancora la pietra di paragone, ma al contrario. «Khe Sanh non deve essere una Dien Bien Phu», dichiarò Johnson e ordinò di tenere la posizione a tutti i costi. Non ce la fece. La base fu evacuata in luglio e in questo caso l’impatto non fu micidiale solo sul piano della fiducia degli americani nella vittoria, ormai svanita, ma anche in termini militari. La base era infatti una postazione fondamentale nella “linea McNamara”, quella che doveva bloccare le infiltrazioni nordvietnamite nel sud.
Quando l’ultimo marine fu evacuato da Khe Sanh Johnson era già quasi uscito di scena. Il primo aprile, a sorpresa, aveva annunciato che non si sarebbe ricandidato alla presidenza. Che sulla sua scelta avesse pesato soprattutto l’offensiva del Tet, la consapevolezza che la guerra non sa- rebbe affatto stata breve e probabilmente non sarebbe neppure stata vinta, è fuori dubbio.
L’offensiva riprese, sia pure in forma minore, in maggio, in quello che viene definito “mini- Tet”, ma in questo caso l’obiettivo era palesemente condizionare i colloqui di pace che si sarebbero aperti dieci giorni dopo, il 13 maggio a Parigi, e poi ancora in agosto. La guerra sarebbe proseguita per altri 7 anni. I bombardamenti di cui Johnson aveva annunciato la sospensione nel discorso del ritiro della candidatura sarebbero proseguiti e si sarebbero anzi intensificati. I militari americani in Vietnam sarebbero arrivati nel 1969 al tetto di 553mila soldati. Ma con il Tet il miraggio della vittoria svanì una volta per sempre. L’opinione pubblica americana diventò sempre più ostile alla guerra. Le manifestazioni si gonfiarono come un fiume in piena e diventarono quotidiane. Il Vietnam si trasformò in una trappola da cui la Casa Bianca non sapeva più come tirarsi fuori. Per molti versi non è esagerato affermare che gli Usa persero la guerra del Vietnam nella notte tra il 30 e il 31 gennaio 1968.