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©girella/lapresse archivio storico spettacolo televisione anni '80 Enzo Tortora nella foto: il giornalista e presentatore televisivo Enzo Tortora nello studio della trasmissione Portobello
Che Marco Bellocchio torni sulla sedia da regista per confezionare una nuova serie tv è già una notizia da far drizzare le antenne a cinefili e critici. Ma se a questo si aggiunge che il prodotto in cantiere riguarda Enzo Tortora, allora la campana suona per tutti. Per chi sa ancora poco o niente del conduttore tv massacrato dalla giustizia, per chi chiude un occhio sul capitolo buio della nostra storia giudiziaria, e per chi semplicemente spera di riscoprirlo per come lo vede Bellocchio.
Ebbene, la speranza non resterà vana: lunedì scorso a Roma sono cominciate le riprese della serie tv in sei puntate prodotta da Our Films insieme a Kavac Film, in coproduzione con Arte France e in collaborazione con The Apartment Pictures, società del gruppo Fremantle. Si chiama “Portobello”, dal nome del celebre programma tv in onda dal 1977 col quale Tortora è entrato nelle case di tutti gli italiani in qualità di conduttore, per ben sette edizioni. È scritta da Marco Bellocchio, Stefano Bises, Giordana Mari e Peppe Fiore. E come per “Esterno notte”, la prima serie tv firmata da Bellocchio che ripercorre gli ultimi giorni di Aldo Moro, anche questa uscirà prima al cinema e poi in televisione.
Dopo i giorni della capitale, le riprese si sposteranno anche in Sardegna, Lombardia, e Campania. Dalle parti della procura di Napoli, immaginiamo, dove l’incubo giudiziario ha preso forma. «Tortora subì una grande ingiustizia: arrestato, processato e condannato, fu completamente assolto solo dopo una lunga odissea giudiziaria. Era un lottatore, ma la lotta lo fece ammalare e morire. Non ne farò un santino, scaverò dentro di lui in una serie perché un film non può contenerlo», spiega Bellocchio. Che torna alla malagiustizia 52 anni dopo il suo “Sbatti il mostro in prima pagina”, il film del 1972 in cui le degenerazioni di un caso mediatico incontrano gli interessi politici sullo sfondo degli anni di piombo. Ricordate? C’è Gian Maria Volonté che interpreta un cinico direttore pronto ad impartire “grandi” lezioni di giornalismo (recuperate anche solo una clip, ne vale la pena).
Qui a calarsi nei panni di Tortora è Fabrizio Gifuni, tra gli attori del cast composto da Lino Musella, Romana Maggiora Vergano, Barbora Bobulova, Alessandro Preziosi e Fausto Russo Alesi. Per il resto, la storia è nota. E racchiusa in due date. 17 giugno 1983, l’inizio: l’arresto studiato a favore di telecamere all’Hotel Plaza di Roma, la “passerella della vergogna” coi ceppi ai polsi. 18 maggio 1988, la fine: il tumore si porta via Enzo Tortora tra le braccia della sua compagna di vita e di lotta Francesca Scopelliti.
Per lui i magistrati avevano formulato un’accusa infamante: traffico di stupefacenti e associazione di stampo camorristico. Il nome lo avevano tirato fuori i pentiti, e per il resto era bastato un pizzico di immaginazione: troppo ghiotta l’occasione di mettere in “copertina” di inchiesta il volto noto del conduttore di Portobello.
Da lì, il processo mediatico che anticipò quello vero. Con la condanna a 10 anni in primo grado nel 1985. Quindi il ribaltamento nel 1986, in Corte d’Appello a Napoli. Merito soprattutto del giudice Michele Morello, che spianò la strada per l’assoluzione. Resa definitiva dalla Cassazione un anno dopo, e uno prima della morte. Nel mezzo il tempo passato in cella da innocente, la battaglia per una giustizia giusta con Marco Pannella. E il celebre: “Dove eravamo rimasti?”, con cui Tortora si riprese il suo spazio in tv dopo aver attraverso l’inferno.
Ora a riportarlo sullo schermo ci pena Bellocchio. Con un’idea che arriva da lontano, come racconta al Dubbio Francesca Scopelliti. «Quando ho pubblicato il libro “Lettera a Francesca” ho subito immaginato che potesse diventare un film basato su questa nostra corrispondenza dal carcere – racconta -. Ma quale regista avrebbe potuto raccontare quella vicenda giudiziaria, documentandosi, senza cercare il romanzo? Pensai subito a Marco Bellocchio, e gli inviai una lettera con una copia del libro».
Da allora, quando nel 2016 è uscito il volume edito da Pacini e curato insieme ai penalisti, sono passati 8 anni. Scopelliti ne ha attesi sei, prima che le squillasse il telefono. «Non ho cercato altri registi. Ho aspettato pazientemente», dice. Nel 2022 Marco Bellocchio l’ha chiamata e da allora, negli ultimi due anni, è cominciata una lunga serie di incontri.
«Ha voluto sapere tutto. Come quei vecchi cronisti che indagavano davvero prima di scrivere. Quando raccontavo alcuni episodi, i giorni degli arresti, mi guardava e mi sembrava che stesse già “girando” con gli occhi». Complice anche un’analogia “narrativa”: dopo aver raccontato la storia di un uomo sequestrato dalle Br, ora bisogna raccontare quella di un uomo «sequestrato dai magistrati». Rimettere occhi, mani e orecchie sul grande rimosso della nostra coscienza collettiva. La stessa che ha tentato di rimuovere ciò che ha accaduto a Tortora, invece di guardarci dentro e porvi rimedio, come non si stanca mai di suggerire Francesca Scopelliti. Che il racconto di quel «crimine giudiziario» l’ha dissepolto e portato in ogni luogo possibile, attraverso la Fondazione Tortora.
«Mai avrei immaginato di rendere pubblico ciò che ritenevo fosse privato, come è successo con le Lettere. Ma sono tutte cose che rispondono a quella frase che Enzo mi disse prima di morire: “Adesso tocca a te”. Ecco, ora vale lo stesso per questa serie tv, che ho seguito fin dall’inizio. E sulla quale ho davvero tanta fiducia, per la stima che ripongo in Bellocchio».