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La mia professoressa di italiano al liceo classico era una donnina all’antica, vezzosa e elegante – aveva una pelle di porcellana, il filo di perle e questi capelli vaporosi e azzurrini. Non ci prendevamo molto – il suo programma arrivava a malapena agli inizi del Novecento, e tutto rigorosamente autarchico, figurarsi io che divoravo gli americani. All’inizio dell’ultimo anno, un giorno venne in classe immusonita – avevano fatto il nuovo orario e il giovedì prevedeva educazione fisica alla prima ora e italiano all’ultima e questa cosa non le andava giù, non so se aveva un suo qualche bioritmo ultradecennale che non si poteva spostare o fosse una cosa di prestigio. In verità, nelle ultime ore c’erano sempre le materie meno importanti – storia dell’arte, matematica, scienze – che eravamo stanchi e disattenti e con la testa pronti a uscire. Però, lei non doveva aver fatto questioni con il preside e cercava ora di stuzzicare noi che, magari protestando ( timidamente, eh, era il 1967), avremmo potuto rimettere lei e il suo italiano alla prima ora. Quei boccaloni dei miei compagni c’erano cascati – ah la cultura, ah Dante, ah Manzoni. Mi alzai io dal banco e dissi – educazione fisica vale come italiano. Apriti cielo! La prese sul personale, mi dileggiò; la presi sul personale, la dileggiai. Quella sua testolina azzurrina ondeggiava di qua e di là. Finii dal preside e mi misero sei in condotta per quel trimestre. E, alla fine della fiera, lei riebbe la sua prima ora. Ma ero convinto – e lo sono ancora – che la spocchia degli alletterati rispetto l’attività fisica sia una sciocchezza.
Mi sono ritrovato per intero perciò nell’irritazione di Roberto Mancini, commissario tecnico della nazionale di calcio, rispetto le dichiarazioni del ministro della Salute Roberto Speranza. Aveva detto Speranza, in risposta all’opportunità di aprire di più gli stadi a un numero maggiore di spettatori sugli spalti: «Sono contrario alle proposte di aprire gli stadi a migliaia di persone perché questo esporrebbe le persone a un rischio vero. Se dobbiamo correre un rischio perché le scuole riaprano sono d'accordo, ma se dobbiamo correrlo per portare decine di migliaia di persone allo stadio sono contrario. È un rischio che non possiamo permetterci. Parliamo troppo di calcio. Le cose importanti in questo momento però sono altre: è il lavoro degli ospedali e dei sanitari e l'attenzione alle nostre scuole, che sono un punto fondamentale di ripartenza del Paese. Un po' meno calcio e un po' più scuola, se possibile. La priorità deve essere altra. Lo dico persino da tifoso. Attenzione a dare le priorità, che non possono essere il calcio o gli stadi. La priorità è la salute delle persone». In verità, il ministro Speranza stava solo richiamando le linee- guida del Comitato tecnico- scientifico che si era appena pronunciato sulla sollecitazione della Conferenza delle Regioni a portare la capienza degli stadi fino al 25 percento. Nessuna deroga all’apertura degli stadi, perché non ci sono le condizioni epidemiologiche: questo il verdetto. Secondo gli esperti, per poter rivedere le misure bisognerà attendere la metà di ottobre, quando saranno più definiti gli effetti della riapertura delle scuole sull’andamento della curva dei contagi da coronavirus. Fino allora, dunque, non vanno cambiate le regole attuali che prevedono un massimo di mille spettatori per gli eventi all’aperto e di duecento persone al chiuso. Il Cts sottolineava che gli eventi sportivi «rappresentano la massima espressione di criticità per la trasmissione del virus».
Quindi, nessun ampliamento della capienza degli stadi, «anche in considerazione del recente avvio dell’anno scolastico, il cui impatto sulla curva epidemica dovrà essere oggetto di analisi nel breve periodo». Lasciava uno spiraglio aperto, il Cts: «Un ritorno graduale degli spettatori alla fruizione in presenza degli eventi sportivi potrà essere riconsiderato sulla base dei risultati del monitoraggio di impatto delle riaperture della scuola e della pubblica amministrazione». Insomma, erano stati gli esperti a accostare vicino e raffrontare scuola e sport. E Speranza si era messo su questo abbrivio. Subito, Roberto Mancini non le aveva mandate a dire: «Ci sono altre priorità rispetto al calcio, come la scuola? Lo sport è un diritto per tutti gli italiani ed è una priorità come lo sono la scuola e il lavoro: milioni di italiani praticano sport ad ogni livello. La mia idea rimane la stessa: in quasi tutta Europa ci sono persone sugli spalti a guardare le partite». Mancini si riferiva con tutta probabilità anche al prossimo impegno della Nazionale, che giocherà domenica 11 ottobre a Danzica contro la Polonia, nella terza giornata della Uefa Nations League, in uno stadio in cui sono attesi diecimila spettatori. Va detto che un certo rischio c’è – la Polonia sinora aveva numeri relativamente bassi di contagio, probabilmente dovuti anche a misure rigide di confinamento. Ma il mese di settembre ha registrato un’impennata di contagi e il governo ha indicato alcune zone particolarmente colpite riservandosi di varare misure più rigide se necessarie. Vedremo. Se parliamo di diritti perciò, credo abbia ragione Mancini: il diritto allo studio vale come il diritto al lavoro e il diritto allo sport. E quando parliamo di sport non si intende ovviamente solo la tifoseria, ma la pratica di un’attività sportiva. E è innegabile che l’attività sportiva sia diffusa e praticata a ogni livello in questo paese. Non solo: ma ha ragione Mancini, difendendo la “sua” Nazionale, perché probabilmente la maglia azzurra è una delle poche cose che tiene ancora insieme questo paese, da Trieste a Ragusa. E lo “spirito di comunità nazionale” è stato suscitato, incentivato, valorizzato non poco quando l’impatto del contagio aveva assunto dimensioni drammatiche. Ricordate gli inni ai balconi – Siam pronti alla morte/l’Italia chiamò?
D’altronde, si sta correndo la 103esima edizione del Giro d’Italia – che doveva svolgersi a maggio ma è stato spostato proprio per via del covid19 – e certo non ha i caratteri tradizionali di festa nelle città e paesi che tocca. C’è un protocollo a tutela di ciclisti e staff, ci sono disposizioni rigide adottate dalla macchina organizzativa – per dire: il foglio firma con le piazze gremite di pubblico in avvio di tappa, le tribune all’arrivo, la variopinta carovana che risale l’Italia insieme al gruppo, le interviste a caldo dei cronisti ai protagonisti della tappa… nulla di tutto questo. Rinunce dolorose, ma necessarie per riprendere l’attività dopo aver visto la cancellazione del 70 percento delle corse in calendario nel 2020. È tutto triste e malinconico. Però, in qualche modo non si molla. E non solo per gli interessi – anche economici – che ruotano intorno il mondo del ciclismo, e figurarsi di quello del calcio. Quanto alla relazione stretta tra studio e attività sportiva, come di sicuro il ministro Speranza sa, già nell’antica Grecia filosofia e sport erano strettamente uniti per esprimere il vigore della mente e del corpo. Lo sport, infatti, si praticava nel Ginnasio, che era palestra e scuola. Socrate praticava lo sport, Platone il pancrazio che era insieme pugilato e lotta, tra le leggi della Repubblica c’era: «Dopo la musica e la poesia, è attraverso la ginnastica che i giovani devono essere addestrati. È quindi necessario che fin dall’infanzia, e per tutta la loro vita, siano rigorosamente addestrati in quest’arte». Anche Aristotele prosegue sulla falsariga di Platone e nella Politica, il filosofo affronta a più riprese l’importanza dell’attività fisica. Insieme alle lettere, alla musica, e alla poesia, la ginnastica è una delle quattro fondamentali branche dell’educazione che raccomanda per i giovani. C’è un famoso e divertente sketch comico dei Monty Python che hanno creato la “partita filosofica” di calcio tra i principali filosofi di Germania e Grecia. Platone, Socrate, Aristotele, Sofocle, Archimede, da una parte e Leibniz, Kant, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche dall’altra. Invece di calciare la palla e costruire azioni di gioco, i filosofi costruiscono ragionamenti e passeggiano in campo assorti a pensare. Come sbloccare la partita? A un minuto dalla fine arriva l’illuminazione di Archimede: e mostra agli altri filosofi come si fa a calciare la palla. Con un bel colpo di testa, Socrate mette il pallone in rete. Inevitabilmente, in campo si accendono forti discussioni...
Se potessi tornare indietro nel tempo – oggi suggerirei alla mia professoressa di italiano (fu Francesco De Sanctis, cui si deve la prima e sistematica Storia della letteratura italiana, a introdurre, da primo ministro dell’Istruzione di un’Italia unita, la ginnastica nelle scuole come materia obbligatoria) di leggere e studiare in classe pagine di alcune grandissime penne del giornalismo italiano. «C'era una luce viperina nelle chiome degli alberi ritagliati contro il tramonto» – a esempio: è l’incipit di Azzurro tenebra, forse il più importante libro di Giovanni Arpino dedicato al calcio, per i Mondiali del 1974. O qualcosa di Antonio Ghirelli, napoletano formatosi alla scuola filosofica del crocianesimo che scrisse la prima vera, importante Storia del calcio in Italia. O una pagina, a caso, di Gianni Brera – come questa dedicata alla morte di Peppino Meazza: «È morto a Lissone Peppìn Meazza. Se n'è andato in silenzio, vergognoso di morire come si dice dei gatti, alla cui specie sorniona apparteneva.
E allora, via, parliamone come di un fenomeno che poco a poco ha inciso sul nostro costume. Personalmente, ho finito addirittura per giocare con lui, ormai facevamo ridere entrambi; ma chiunque, ragazzino, abbia pedatato negli anni trenta, almeno per un istante, un'ora, un anno ha provato a mitizzare se stesso nel suo nome. Perché Peppìn Meazza è il football, anzi "el fòlber" per tutti gli italiani. Grandi giocatori esistevano al mondo, magari più tosti e continui di lui, però non pareva a noi che si potesse andar oltre le sue invenzioni improvvise, gli scatti geniali, i dribbling perentori e tuttavia mai irridenti, le fughe solitarie verso la sua smarrita vittima di sempre, il portiere avversario...» Se non è letteratura, questa. Se non è scuola di italiano, questa.