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Anche se il discorso politico e culturale dell'Italia repubblicana è stato dominato dalla sinistra, nelle sue numerose e spesso diversissime declinazioni, è esistita, e tuttora esiste, un'Italia che a quel discorso, alle sue convinzioni e alle sue retoriche, è stato ostile. Eugenio Capozzi, storico del Suor Orsola Benincasa di Napoli, usa il termine "moderatismo" per definire questa parte "minoritaria" (non per numero ma per influenza) della società italiana in un volume appena pubblicato dall'editore Rubbettino: Storia dell'Italia moderata. Destre, centro, anti-ideologia, antipolitica nel secondo dopoguerra (pp. 300, euro 19). Egli, tuttavia, avverte subito, e specifica con esempi concreti, che si tratta di un termine molto vago e approssimativo, avendo avuto anche il campo "moderato" tante declinazioni e subito tante torsioni da non poter essere affatto ridotto a un sia pur minimo comune denominatore. Alquanto paradossalmente, poi, alcune di queste declinazioni non sono state affatto "moderate", né nei toni e né nella sostanza.La traccia, per capirci qualcosa, Capozzi ce la dà nel primo capitolo del libro che sin dal titolo parla di un "conservatorismo impossibile". Detto altrimenti: perché in Italia non è mai sorto un partito assimilabile ai Tories inglesi, ai gollisti francesi, ai democristiani tedeschi o ai repubblicani americani (almeno quelli storici: con la nomination di Donald Trump la faccenda sembra cambiare aspetto anche oltreoceano)? Perché, in altre parole, il "benpensante" di destra, borghese, liberale, conservatore, uomo per definizione d'ordine e attaccato ai valori dello Stato, non ha espresso mai una proposta politica autonoma? Perché, anzi, ha non solo dovuto convivere, in varie esperienze o movimenti politici, con esperienze di radicalismo demagogico e antisistema, ma ne ha spesso assunto i toni e assorbito gli umori? Perché ha assunto caratteristiche anti establishment e antistali? Perché chi si è sottratto a questa morsa si è messo sotto l'ala protettrice della Balena Bianca, cioè della Dc, che ha votato, come Montanelli, "turandosi il naso"? Sono tutte domande che Capozzi si è posto, rispondendo nel modo più semplice possibile: risolvendole nella storia, cioè raccontando la storia dell'Italia repubblicana da un altro angolo visuale rispetto a quello dominante.Ne viene fuori che la storia dei "moderati" italiani, cioè di una buona metà del Paese, ha avuto e ha una sua particolare fisionomia perché particolare è la fisionomia dell'altra parte, la parte vincente. Quando si denuncia, più o meno indignati, che in Italia non è mai esistita, nel secondo dopoguerra, una Destra "normale" si dice la verità ma non si dice tutta la verità. Una "destra normale" non è esistita, certo, ma specularmente non è esistita una Sinistra " normale". Non è mai esistito, infatti, un partito laburista o socialdemocratico o democratico all'americana: cioè conciliato con il capitalismo e il libero mercato, volto a migliorare il sistema ma non ad abbatterlo (che è stato l'orizzonte in cui si è sviluppata l'azione anche del partito più a forte a sinistra, il Pci, il quale, pur collocandolo in un non ben definito futuro, a quell'abbattimento, o "superamento del capitalismo", comunque era teso). Quell'ampio blocco di cittadini che avevano vissuto il fascismo come "freno a mano" contro derive sovietizzanti, che lo avevano visto come garante di stabilizzazione e "tranquillità", che avevano avuto nella monarchia un solido punto di riferimento, che avevano apprezzato il riappacificamento dello Stato italiano con la Chiesa Cattolica realizzatosi con la firma del Concordato; quel blocco, dicevo, andò sempre più disaffezionandosi man mano che Mussolini, ad anni Trenta inoltrati, allineò sempre più la sua politica a quella di Hitler. Si formò perciò una vasta area di indifferenti, afascisti e in alcuni casi anche antifascisti. Costoro fecero, a regime caduto, un «cauto investimento nella rinnovata democrazia, accoppiato ad aspirazioni altrettanto rinnovate alla stabilità sociale». Quell'investimento «venne ben presto contraddetto però dall'immediata constatazione che la nuova classe politica succeduta al fascismo, impostasi sull'onda della Resistenza, consisteva di partiti in gran parte fortemente ideologizzati: tra i quali in particolare, nuovamente e con un ruolo quantitativamente rilevante, i vessilliferi della collettivizzazione socialcomunista, eredi e continuatori della frattura marx-leninista prodottasi nelle società europee dai primi decenni del secolo». Il "moderatismo" raccoglie allora, nei primi anni dopo la guerra, tutti coloro che avvertono come una minaccia il progetto di trasformazione radicale della società e della classe politica messo in atto, in diverse modi e forme, dai partiti antifascisti e resistenziali. I "moderati", pur non avendo rimpianti per il fascismo, giudicano l'antifascismo pericoloso per le abitudini e le tradizioni sociali. Il collante che li tiene uniti è l'anti-antifascismo, per usare un'espressione dello storico Giovanni Orsina, molto usata anche in questo libro. Le esperienze più significative del "moderatismo" italiano si sono organizzate intorno a tre temi: la battaglia alla "democrazia dei partiti" o "partitocrazia", la profonda avversione per tutto ciò che è o sa di ideologia, in nome di un sano pragmatismo democratico e liberale ma anche spesso dell'uomo qualunque, di un cittadino più agli interessi del proprio nucleo familiare o degli amici che non a un mai ben definito "interesse generale"; la critica del sistema elettorale proporzionalistico e della Costituzione emersa dall Resistenza, in nome rispettivamente di un sistema maggioritario e di forme di presidenzialismo più o meno accentuate.Tutti temi che, già impostati agli albori repubblicani, sono poi emersi in modo sempre più forte dopo che certi equilibri repubblicani sono cominciati a saltare a partire dai tardi anni Settanta. Fu allora che, nel nome dell'anticomunismo e dell' alternativa socialista", emerse nel Psi la figura di Bettino Craxi, che, in nome di una "Grande Riforma", si prese carico di molte di queste tematiche. Era una novità a sinistra, che sparigliava il campo di gioco, e che ebbe come fiero avversario un Pci arroccato nella difesa dell'Unione Sovietica, seppur con molti distinguo, e di un' "alternativa di sistema" che non era ormai più proponibile.Neanche il predominio a livello mondiale, negli anni Ottanta, di un conservatorismo liberista, impersonato da Ronald Reagan e Margareth Thatcher, fa sì che in Italia nasca un partito conservatori e di stampo europeo. Né tantomeno se ne poteva fare carico un Partito di sinistra come quello socialista. Craxi, d'altronde, si arroccò sempre più in sé stesso, in una difesa "partitocratica" di un sistema sempre più corrotto che ormai, a inizio Novanta, era pronto all'implosione.La possibilità di creare anche in Italia un partito conservatore si palesò con il crollo della prima repubblica, in particolare allorquando Silvio Berlusconi "scese in campo" con il movimento, o meglio il partito personalizzato, denominato "Forza Italia". Siamo nel 1994 e il Cavaliere, accortosi che il campo "moderato" era rimasto senza rappresentanza politica con il crollo del partito che a livello istituzionale ne aveva raccolto in modo più o meno riuscito l'eredità, punta la sua scommessa politica proprio sull'esistenza di esso. L'eterogeneità delle forze che riesce ad aggregare grazie al suo carisma mostra però la difficile reductio ad unum di questa area sociale e politica. Ne mosta anche le famiglie principali. Nella Berlusconi Coalition lungo un ventennio confluiscono socialisti e liberisti, federalisti (o persino secessionisti settentrionali) e statalisti (meridionali, ma non solo), garantisti intransigenti (talvolta addirittura provenienti dalla vecchia sinistra extraparlamentare post-sessantottina) e giustizialista law and order, radicali e cattolici (neo democristiani, esponenti di Comunione e liberazione, intransigenti), antifascisti e post (ma a volte nemmeno post-) fascisti". Nonostante questo amalgama, direi classico, di forze, necessario in un sistema politico diventato ormai bipolare, Berlusconi sembrò all'inizio in grado di imporre al "moderatismo" italiano una sua coerente politica di conservatorismo liberista (si pensi al famoso discorso televisivo di presentazione agli italiani). Ma anche questa volta doveva trattarsi di una illusione, come Capozzi mette in luce con precisione. Le forze centripete, e persino fortemente protezioniste (incarnate ad esempio dal Ministro dell'Economia Giulio Tremonti), avrebbero man mano conquistato spazi sempre più esorbitanti. La "rivoluzione liberale", in sostanza, rimase una semplice espressione retorica. Per non parlare delle spinte radicali e antistituzionali che, in alcuni momenti, il berlusconismo incarnò in un modo che la sinistra non esitò a definire "eversivo". La quale sinistra, nel frattempo, aveva sempre più dissolto la sua identità para e post-comunista in un giustizialismo e moralismo altrettanto settario e illiberale.E giungiamo così ad oggi. Non c'è dubbio che con Matteo Renzi il paradigma sia cambiato: la sinistra, per la prima volta in Italia, si presenta con un'identità riformista ed europea. Non solo: "ruba" anche al "moderatismo" anche molti dei suoi temi classici. A cominciare da quello della riforma costituzionale. Saprà la destra corrispondere a questo cambiamento? E' questa la sfida dell'oggi. Risulta però alquanto strano che essa si erga ora, per calcoli politici, a difensore di un sistema costituzionale che il "moderatismo" ha sempre criticato. Incurante del fatto che la riforma Boschi, imperfetta e lacunosa quanto si vuole, si muove comunque nella direzione presidenzialista e maggioritaria da sempre cavallo di battaglia dei "moderati" italiani.