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Curioso che in Italia nessuno abbia pensato a girare un film come Doubles vies di Olivier Assayas, tradotto maldestramente come Il gioco delle coppie, col solito problema che affligge la nostra importazione, cui si affiancano gli altrettanti vieti problemi del doppiaggio ( con esiti assai comici, qui, come “voci” al posto di “bufale” e “messaggi telematici” per e- mail). Il tema del film è in effetti abusato nel discorso comune, sociologico, mediatico: il digitale sopravanzerà l’editoria tradizionale fino a farcela scomparire sotto gli occhi, e la figura dell’editore, che si presenta dalle prime sequenze come l’affettuosamente cinico “scaricatore” dello scrittore di worst seller, somiglia già al prete di Bergman, che continua a dir messa nonostante abbia perso la fede. Così, almeno, nell’autocoscienza dello stesso protagonista, che deve vedersela col rampantismo delle nuove generazioni pronte a veder scomparire, insieme all’editoria, qualunque forma di mediazione, inclusa la critica, ritenuta una “forma di potere” ( beati loro, i francesi: qui non ne resta quasi traccia e le nuove generazioni non conosceranno mai quello che Montale chiamava “il secondo mestiere”), non al passo con i tempi e con le tendenze di mercato ( e con gli algoritmi e i like social). L’antagonista, lo scrittore, è il personaggio che ci si aspetta: goffo, simpatico, un po’ tonto, incapace di motivare ciò che scrive e di uscire dal cerchio delle proprie vicende personali nella narrazione. Il sottotema del film si riferisce a un altro dei dibattiti letterari degli ultimi dieci anni: l’autofiction, la coincidenza o meno tra io empirico e io narrante ( che nel film si lega alla scena in cui gli spettatori – pochi, al solito - di una presentazione in libreria chiedono all’autore se non esista una proprietà della vita, di contro alle esigenze autoriali e ai diritti della fantasia, come avrebbe detto da noi Pirandello un secolo fa).
In Italia questo tema è dibattuto molto, moltissimo nei social: il giorno in cui ho visto il film venivo da una discussione su Facebook tra i sostenitori della letteratura cosiddetta mainstream e i ( pochi e sempre più solitari, ormai) aficionados dello stile. L’equivoco è quello secondo cui sarebbe più democratico dare ai lettori ciò che sono in grado di leggere, senza pretendere che il “droghiere” ( esempio di uno dei commentatori Facebook) sia in grado di leggere la Recherche. E dunque, siccome il droghiere non vuole leggere Proust, noi Proust, ammesso che oggi ve ne sia uno da qualche parte, nemmeno facciamo più lo sforzo di cercarlo perché tanto nessuno lo leggerebbe. A sostegno di questa tesi ( e anche di quella del film), i pareri dei lettori su Amazon: che noia quelle pagine sul bacio della buonanotte, ma come si fa ad andare avanti!
Il film in realtà enfatizza eccessivamente la funzione del digitale e della produzione di ebook, così come quella dei social e degli indici di gradimento verificati ( o addirittura predeterminati) dagli algoritmi. Se quella tra editore e scrittore è una guerra antica, di cui recano testimonianza tanto gli epistolari con i rifiuti ( celeberrimo quello tra Calvino e il plurirespinto Morselli, divenuto autore postumo per eccellenza), quanto le opere propriamente creative maturate attorno a questa incompatibilità tra le due figure: dall’Encomio del tiranno manganelliano alle Lettere a nessuno di Moresco ( esempio di autofiction, in qualche modo). Quello che cambia, già prima di internet, tra la fine degli anni Novanta e i primissimi anni Zero, ce lo ha spiegato una volta per tutte André Schiffrin: l’editore passa dall’essere un imprenditore culturale a un imprenditore e basta. Il fatturato non viene all’impresa dal complesso delle entrate ma da ogni singolo prodotto, ed ecco che i worst seller del nostro amico del film, pur non somigliando nemmeno lontanamente all’idea di “letteratura di qualità” portata avanti dal dibattito svoltosi una decina d’anni fa in Italia, devono essere sacrificati ad altre logiche ( che nel film peraltro si contaminano con ragioni strettamente personali, pure queste non del tutto aliene dalle dinamiche editoriali nostrane: non sei quello che sei, in Italia, ma chi conosci, come ricordava Enzo Biagi).
E dunque: perché in Italia nessuno prova a fare un film del genere? C’è stato, anni fa, il documentario di Andrea Cortellessa e Luca Archibugi, Senza scrittori, a lanciare, proprio sulla scorta di Schiffrin l’allarme sulla bibliodiversità, l’assenza di una diversificazione dei prodotti venduti in libreria ( che a chiamarli libri talvolta pare di far davvero grave torto ai prototipi), ma la fiction nostrana si tiene alla larga dalle sorti della letteratura probabilmente perché le ignora. Ignora che ci sia un’emergenza, che aumentino, come si dice nel film, i libri proprio mentre diminuiscono i lettori, che questi ultimi abbiano sempre meno scelta negli scaffali delle librerie, perché ciò che viene spacciato per novità negli espositori è in realtà l’ennesima replica di un prodotto pensato per essere venduto, non certo perseguendo quella che gli editori di una volta chiamavano “politica autoriale”. In Italia non si parla di questo tema nei film, ma se n’è parlato in un libro recente di Walter Siti, Bontà, in cui il narratore descrive il mondo editoriale con toni macchiettistici ( e un po’ misogini: la parte peggiore della sfigata è al solito assegnata alla rampante editor femmina). A proposito di titoli e di traduzioni, quella esatta del mood sitiano sarebbe più correttamente “pavidità”: non si può certo raccontare come vadano davvero le cose nell’editoria pubblicando romanzi, magari per lo stesso editore di cui si sparla nel libro. Non siamo ancora pronti per questo, e forse non lo sono nemmeno in Francia. Una volta Arbasino parlò della necessità di una “gita a Chiasso” per lo svecchiamento della nostra letteratura, forse oggi non basta più nemmeno quella e bisogna arrendersi all’evidenza: solo, con qualsiasi altro nome, ma smettiamola di chiamarli libri. In quelli si parlava del bacio della buonanotte senza annoiare il lettore e anzi, nutrendolo, scuotendolo, rianimandolo. Chiamiamoli scacciapensieri, o formaggini, o qualunque altra cosa: i libri sono come le stagioni, le mezze misure non sono mai esistite, o ciofeche o capolavori. Quel che c’è in mezzo si guasta in mezz’ora e come il
pesce, puzza di fregatura.