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Le protagoniste del film di Özpetek
“Diamanti” segna l’omaggio definitivo all’amore per il cinema e per il teatro che, nello sguardo attento di Ferzan Özpetek, possono ancora salvare la società. I titoli di coda, fatti di scatti fotografici resi in colori vividi, formano un mosaico vivente delle interpreti dell’opera; la dedica finale del regista è però rivolta a tre dive che non sono più tra noi: Mariangela Melato, Virna Lisi, Monica Vitti.
“Diamanti”, dunque, testimonia un innamoramento, parlando al grande pubblico delle sale, evitando l’arrocco dello splendido e poco visto Nuovo Olimpo e virando Luisa Ranieri dalla dolcezza di una cassiera di cinema verso l’implacabilità dell’imprenditrice Alberta, che pretende di imporre ad altre donne le rinunce che l’hanno privata di ogni capacità di amare.
Il film confonde senza stacchi vita e memoria, tanto da adoperare la realtà del cast, dal regista in poi, come sofisticatissimo materiale narrativo, messo in scena davanti a un pranzo che delinea ruoli e dinamiche del testo da mettere in scena. Invenzione metafilmica che tornerà sul finale, quando il film da costruire è oramai compiuto e dissolto. Gli spazi sono tornati vuoti, le emozioni sono fuoriuscite verso gli spettatori. Senza l’arte, ogni comunità rischia di smarrirsi, abbandonandosi all’illogicità della violenza e al disconoscimento dei diritti dell’altro, senza sostanziali differenze tra proteste politiche di piazza risolte con le manganellate, e violenze domestiche impastate di percosse e minacce di morte di un mai così torvo Vinicio Marchioni.
L’atelier di moda delle due sorelle romane, che pure offre vessazioni e durezze e tanto sudore a fronte di poco salario, rappresenta comunque un rifugio sicuro perché le donne siano se stesse, libere di mostrare tutti i loro colori, senza condizionamenti, giudizi, abusi degli uomini. Che anzi in quell’ambiente sembrano rispettosi, amorevoli come Luca Barbarossa, quando non spaesati come Carmine Recano, perché riprogrammati secondo i codici della bellezza e l’ariosità delle canzoni di Mina, nel fruscio delle sete o nella psichedelia di plastiche rutilanti. Il regista ritrova i suoi studi all’Accademia di Costume e di moda, e li mette in scena, usando l’arte della sartoria, nella Roma di fine anni 60 del Novecento, per raccontare il legame indissolubile tra immagine, divismo e costruzione dell’abito di scena. Partendo da una solida poliedricità comune a quanti hanno esplorato i tanti mestieri del cinema, l’autore sceglie di utilizzare un racconto per sintesi, innestando sulla grande storia del secondo Dopoguerra e delle rivendicazioni sessantottine le piccole storie delle donne che quegli anni hanno attraversato, a volte lateralmente, o delle imprenditrici o attiviste che hanno vissuto da protagoniste, da vicino, il compiersi di un’epoca sociale e storica.
Özpetek resta prima di ogni cosa uno studioso attento dei sentimenti e della natura delle donne, che ama esplorare nel profondo con grande rispetto. E per raccontare lo scorrere di emozioni contrastanti, sceglie la tela di Penelope di abiti da progettare e disfare in una notte, solo apparentemente al centro dell’opera. La loro preparazione deve rivelare le mani che cuciono, che scelgono le stoffe, che rifanno bozzetti, che creano colori dal nulla. E a quelle mani anonime di tintrici, modiste, ragazze di bottega, cucitrici e cuoche d’atelier, Özpetek dona i volti e i corpi più belli del nostro Cinema. Fuoriescono così naturali, come nella lettura del copione intorno al tavolo di lavoro, secondo una modalità usata più in teatro che nel cinema, insicurezze, speranze, ambizioni, lacrime. Tutte le energie che ognuna serba, a loro volta sono poste in un alveare chiuso e protetto, dove l’ape regina ha la forza e la fragilità di due anime opposte, incarnate magnificamente da Luisa Ranieri e Jasmine Trinca. Intorno, una selva operaia di caratteri e vite, formata da donne che da loro subiscono angherie sul lavoro, sottomesse alla potenza irraggiungibile del sogno. Ma quelle botte d’ira, i dispotismi, i bruschi cambi di direzione, tra donne si comprendono e si accettano, per sorellanza, come per garantirsi futuro e autonomia da uomini che appaiono fragili, irrisolti, violenti.
Il film sembra essere il frutto della riflessione su un diverso tempo dell’essere donna, andando oltre la sterile celebrazione di un incomprensibile altro da sé de “La città delle donne” di Fellini, e tallonando o a suo modo superando l’indagine storica e affettiva della Cortellesi di “C’è ancora domani”. “Diamanti” ne sembra anzi la prosecuzione, in un’Italia a colori, dove ancora una donna può essere uccisa nel silenzio di una casa isolato, ma ci si ribella, in tante, agli schiaffi, alla privazione di un figlio, alla depressione, alla povertà. Le donne di Özpetek hanno ciascuna una luce, dalla generosità della cuciniera Mara Venier, alla tigna della tintrice di stoffe Nicole Grimaudo. Sanno essere madri fino in fondo come Anna Ferzetti e Paola Minaccioni, energiche come Geppi Cucciari e Lunetta Savino, coraggiose nella rinascita come Vanessa Scalera e Milena Mancini. Le donne sono tutto, e come fate sanno quando salire in silenzio le scale e ricostruire, riprogettare un domani, mettendo al servizio degli altri intere esistenze. Sorridenti come Sara Bosi, dignitose come Loredana Cannata, barocche come Carla Signoris o irraggiungibili come Kasja Smutniak. Donne di luce, fino in fondo, come Elena Sofia Ricci, capace, da sola, di illuminare ambienti vuoti per guidare à rebours nella lavorazione un commosso Özpetek.