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«Capuozzo, accontenta questo ragazzo, avverti sua madre che lui sta partendo per la Germania. Addio!». Sono le ultime parole di Giovanni Palatucci, chiuso in un vagone piombato alla stazione di Trieste con altri mille deportati destinazione Dachau, sentite dal brigadiere di Pubblica Sicurezza Pietro Capuozzo, in servizio a Fiume. L’episodio è raccontato in una lettera inviata a Goffredo Raimo, storico avellinese autore del libro “A Dachau, per amore”, del 1989, dalla triestina Libera Capuozzo, moglie del brigadiere Capuozzo e madre del giornalista Toni Capuozzo. «Una mattina di ottobre, venne da noi a casa, un agente di custodia e mi raccomandò di avvisare mio marito che alle ore 14 dello stesso giorno il Palatucci, insieme ad altri deportati, sarebbero partiti alla volta della Germania. Mio marito andò al treno, ma si fece accompagnare da un agente della Polfer, perché i deportati erano chiusi nei vagoni e lui per far sapere al commissario che era lì, alla pensilina, doveva parlare ad alta voce, ma non poteva chiamarlo per nome. Camminando su e giù tra i vagoni, si trovò un biglietto tra i piedi e la voce del Palatucci che diceva: - Capuozzo, accontenta questo ragazzo, avverti sua madre che lui sta partendo per la Germania. Addio!». Da quel particolare è partito Angelo Picariello, giornalista di Avvenire, per raccontare la storia del suo conterraneo Giovanni Palatucci in un libro, edito nel 2007, intitolato proprio “Capuozzo, accontenta questo ragazzo. La vita di Giovanni Palatucci” ( San Paolo edizioni). Un libro che ha avuto il merito di far conoscere alcuni aspetti e la profonda umanità del questore Giovanni Palatucci, irpino di Montella a pochi chilometri dalla più famosa Nusco nato il 31 maggio 1909, e il valore di un uomo che riuscì a salvare oltre cinquemila ebrei, tanto da meritarsi l’appellativo di “Schindler irpino”. Un numero approssimato probabilmente per difetto, sentendo alcune testimonianze, come quella dell’agente di polizia Alberino Palumbo, giovanissimo collaboratore di Palatucci nel periodo finale, senza contare tutti quelli che potrebbero essere passati, sfuggendo a ogni controllo, dal “Canale fiumano”, provenienti dalla ex Jugoslavia, per sfuggire al regime degli ustascia filo- nazista di Pavelic. Tra loro anche l’amica ebrea Mika Eisler e sua madre, messe in salvo utilizzando il canale svizzero che il console amico del commissario Niel Sachs di Gric gli aveva messo a disposizione.
Lo testimoniano riviste storiche, uscite nella Jugoslavia comunista nel secondo dopoguerra, che indicano come la Questura di Fiume avesse allentato i controlli sugli ebrei in fuga dalla Jugoslavia. Gli ebrei che vi giungevano, sapevano di trovare in quella città una via di salvezza. La polizia di Fiume, che nell’organizzazione fascista non rivestiva alcun ruolo di spicco, era sprovvista di mezzi e poco motivata a reprimere. Palatucci poteva quindi risultare di grande aiuto, anche con la semplice inerzia, evitando di attuare qualsiasi forma di verifica sugli ebrei passati nel suo ufficio, forniva poi loro strani permessi di soggiorno, per garantire un minimo di provvisoria sicurezza, o li nascondeva presso famiglie o comunità religiose sicure. Palatucci si assunse la responsabilità di rendere inoperanti gli ordini del prefetto Temistocle Testa, fedelissimo di Mussolini. Secondo le sue disposizioni gli ebrei in fuga avrebbero dovuto essere colti come in trappola. Grazie invece alla collaborazione di finanzieri compiacenti e ufficiali della Seconda Armata la trappola non funzionò. Palatucci ufficialmente li faceva apparire irreperibili, mentre poi li muniva di documenti alterati.
Giovanni Palatucci fin dal primo incarico, alla Questura di Genova, si rivela un funzionario “scomodo” perché non accetta – e lo dice in un’intervista anonima, ma il questore riesce a risalire - . Nel 1937, Palatucci viene trasferito, “al confino”, alla questura di Fiume come responsabile dell'ufficio stranieri e poi commissario e questore reggente. All’indomani della pubblicazione delle leggi razziali ( 17 novembre 1938) Palatucci non nasconde la sua insofferenza. L’avvocato Barone Niel Sachs di Gric, che conobbe il Commissario Palatucci nell’espletare funzioni di legale di fiducia presso la Curia Vescovile di Fiume, in una sua lettera del 25- 09- 1952 indirizzata allo zio del commissario, monsignor Giuseppe Maria Palatucci vescovo di Campagna, nel Salernitano, sottolineava quanto il giovane amico sfidasse “l’ira dei suoi diretti superiori, il Prefetto ed il Questore di quel tempo”. Nel contempo il legale annotava la “riconoscenza imperitura dei beneficati dell’ottimo mio caro amico, suo esemplare nipote, mai abbastanza rimpianto”, e che egli aveva avuto “la fortuna” di conoscere. Parlando, un giorno, con il suo “indimenticabile” amico, il quale avrebbe “a guerra finita dovuto entrare a far parte” del suo“studio di avvocato a Fiume”, ricorda che egli gli disse pieno di amarezza: “ci vogliono dare a intendere che il cuore sia solo un muscolo e ci vogliono impedire di fare quello che il cuore e la nostra religione ci dettano”.
Rodolfo Grani, ebreo fiumano molto impegnato, promotore dei primi pubblici riconoscimenti in Italia ed in Israele alla memoria di Giovanni Palatucci, al quale fu molto legato, ricorda un primo grande salvataggio nel marzo del 1939, grazie al funzionario, da lui definito “nobilissimo giovane cattolico”. Oltre ottocento fuggiaschi dalla Jugoslavia, su una nave greca, erano diretti verso il porto di Fiume, non sapendo che la Gestapo era in agguato. Palatucci, avvertito della trappola, li sottrasse alla cattura dirottandola nella località di Abbazia, dove furono accolti, con l’autorizzazione del vescovo, nel locale seminario.
Nel suo lavoro Angelo Picariello è andato alla ricerca delle origini di Palatucci per spiegare il personaggio nella sua complessità: dall'Archivio Storico della Polizia di Stato di Roma, in quello del Santuario di San Francesco a Folloni ( Montella), nella Biblioteca del Convento di San Lorenzo a Napoli, presso l'Associazione Nazionale Giovanni Palatucci, a Campagna. Dove – come detto - era vescovo lo zio, monsignor Giuseppe Maria Palatucci, medaglia d’oro al merito civile alla memoria. Quella di Palatucci era una famiglia molto religiosa, altri due zii paterni furono frati francescani. Monsignor Palatucci collaborò con il nipote per accogliere nel campo profughi di Campagna i perseguitati, che Giovanni non riusciva a far espatriare. Era di Pisciotta, non lontano da Campagna, Giuseppe Veneroso, agente in servizio a Fiume che ha confermato l’esistenza di ben cinquemila passaporti falsi gestiti segretamente ( in soli due anni) per conto di Palatucci, insieme ad altri due giovani colleghi deceduti, alla frontiera di Buccari. Picariello ha raccolto questa preziosissima testimonianza. «Infatti - racconta Veneroso - quelli che accompagnavano questi ebrei al confine di Stato, sentendo da dove provenivo, spesso dicevano: “Questi vanno dalle parti tue”». Alcuni erano destinati ai campi di internamento italiani dove, soprattutto in quello gestito dallo zio vescovo, il commissario li considerava al sicuro. «Ma - scrive Picariello - man mano che la situazione peggiorava anche in Italia, l’unica via di scampo divenne per loro la fuga per mare. E per raggiungerlo c’era bisogno di quel prezioso foglio di carta provvisorio, il più delle volte falso, rilasciato dalla questura di Fiume e accettato alla frontiera da controllori compiacenti e fidati, come Veneroso».
Il racconto di Veneroso è molto preciso: «Donne e bambine entravano in Italia davanti a noi, gli uomini, invece, per lo più passavano il confine clandestinamente, lungo le montagne, di notte, percorrendo i sentieri nascosti dai pini che venivano usati dai contrabbandieri slavi. Noi li vedevamo, ma se capivamo che erano ebrei facevamo finta di niente». Palatucci aveva abbracciato quella causa, come conferma Veneroso: «Il commissario chiese ai miei superiori, il maggiore Fortunato e il capitano Tatonetti, un elenco di finanzieri, “di quelli buoni, fidati. Che non parlano e che non bevono”». Veneroso, poi trasferitosi a Prato con la famiglia, su proposta dell’allora presidente del Consiglio regionale toscano, ha fatto in tempo ad ottenere un riconoscimento della Regione Toscana, che – come era solito dire ai suoi – gli ha allietato gli ultimi anni della sua esistenza.
Angelo Picariello ci descrive il clima nel quale visse Palatucci in quel periodo. «Siamo all’indomani dell’armistizio del ’ 43, molti italiani sono scappati da Fiume, tra loro anche i funzionari della Questura, Palatucci si ritrova il più alto in grado e diventa questore aggiunto. La sua insofferenza al regime fascista e la sua profonda fede cattolica fanno scattare nel giovane funzionario della polizia la molla della solidarietà, un po’ come accade oggi per chi si trova a dover fronteggiare i fenomeni migratori nel Mediterraneo. Si ritrovò intorno agenti e finanzieri meridionali che, come ha scritto giustamente Toni Capuozzo nella prefazione del mio libro, non possono essere definiti antifascisti, ma afascisti. Palatucci, poi cominciò a frequentare le famiglie della borghesia fiumana che videro in lui un possibile tramite con le forze alleate per riuscire a scongiurare che la città passasse alla Jugoslavia. Soprattutto con i militari meridionali si creò una sintonia particolare. Palatucci divenne una garanzia per gli ebrei che potevano così superare i controlli quasi sempre senza autorizzazione, o con falsi permessi».
Documenti che Palatucci distrugge, così come tutto il materiale relativo agli ebrei custodito negli archivi della questura, Tra l’altro ordina agli uffici comunali di non rilasciare alcun documento riguardante quei cittadini senza previa comunicazione al suo ufficio. Uno stratagemma per conoscere in anticipo le azioni repressive organizzate dalle SS e poter avvisare in tempo gli ebrei ancora presenti.
«Questo è un particolare determinante – aggiunge Picariello – per capire bene l’opera di Palatucci. Alcuni suo detrattori qualche anno fa hanno provato a confutarla, tanto da arrivare a sostenere che fosse un collaboratore delle SS. Dietro questo tentativo c’è da una parte l’attacco alla Chiesa di Pio XII, accusata ingiustamente di essere rimasta passiva in presenza della Shoah. Proprio la collaborazione tra Giovanni Palatucci e lo zio vescovo dimostrano il contrario e lo testimoniano alcune lettere inviate dal monsignor Giovanbattista Montini ( il futuro Paolo VI ndr.) al vescovo Palatucci. Dall’altra la propaganda degli irredentisti comunisti “titini”. A confutare tutto questo si sono pronunciati autorevoli esponenti della cultura ebraica, come la storica Anna Foa, confermando le giuste motivazioni che portarono a nominare Palatucci Giusto delle Nazioni nel 1990. Dalla Yad Vascem, il memoriale dell’Olocausto non è mai arrivato nessun ripensamento sulla sua figura». Anna Foa scrive, infatti, che “l’attività di Palatucci come tutte le attività di questo genere, non poteva che svolgersi nel segreto”. E ancora “Siamo, nel caso di Palatucci, di fronte ad un personaggio che agisce per proteggere gli ebrei non solo quando è un funzionario dello Stato fascista ma anche quando rappresenta a Fiume le istituzioni repubblicane e antisemite di Salò, la cui opera attraversa trasversalmente cioè gli anni, per usare un'espressione calzante di Michele Sarfatti, tanto della persecuzione dei diritti che della persecuzione delle vite. Un personaggio, inoltre, sulla cui adesione alla Resistenza ci sono testimonianze difficili da mettere in dubbio. Uno sguardo ampio alla storia complessa della Shoah in Italia, sia in rapporto al periodo tra le leggi razziste del 1938 e il 1943, sia in rapporto alla memoria mitologica dei ' buoni italiani', non può che far risaltare l'opera di Palatucci come quella di una consapevole disubbidienza ad una normativa considerata ingiusta”.
Purtroppo l’opera di Palatucci finì la notte del 13 settembre 1944, quando su ordine del tenente colonnello delle SS Herbert Kappler, fu perquisita l’abitazione e venne trovata copia del piano dello Stato libero e autonomo di Fiume. Accusato di intelligenza col nemico fu portato nel carcere Coroneo di Trieste e, nell’ottobre 1944, istradato a Dachau, dove morì il 10 febbraio 1945.