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Tra due settimane circa inizia la trentesima edizione del Rossini Opera Festival ( ROF per gli amici) e Pesaro diventa la Bayreuth italiana: pubblico internazionale, spettacoli ( tre opere, un’opera per i giovani dell’Accademia Rossiniana e concerti) i cui biglietti sono esauriti da tempo e lauti guadagni al territorio ( studi econometrici affermano che un euro di contributo pubblico ne porta almeno sei al territorio nel periodo della manifestazione).
Rarissimi però sono i rossiniani che sanno che Rossini, grazie all’assistenza di abili avvocati, può essere considerato il proto pensionato per eccellenza italiano ( la percepì dall’età di trentasette anni – morì a settantasei anni- a livelli quasi analoghi al suo stipendio). Non solo riuscì anche ad aggirare, legalissimamente, il governo francese che la erogava.
Andiamo con ordine. Quando Rossini cominciò a lavorare ed avere le sue opere rappresentate nei teatri italiani, la normativa sui «diritti d’autore» stava evolvendo negli Stati della Penisola italiana, considerata dai più una mera «espressione geografica», come la avrebbe chiamata Metternich al Congresso di Vienna. Una normativa, importata dalla Francia napoleonica, esistette in quella parte allora chiamata Repubblica Cisalpina dal 1801. Si modellarono su questa normativa il Regno delle Due Sicilie nel 1811 e lo Stato Pontificio nel 1826. La convezione sui diritti d’autore austro- sarda del 1840 ( a cui aderirono quasi tutti gli Stati della Penisola). Occorre sottolineare che unicamente la normativa del Regno delle Due Sicilie era tarata agli spettacoli dal vivo; tuttavia era difficile monitorare l’applicazione della brutta prassi di impresari e gestori di teatri ( specialmente d’opera) di modificare organici orchestrali, vocali, tagliare brani ed introdurne altri di autori differenti.
Alcune di queste prassi sono diventate di tradizione: ad esempio, sino agli Sessanta del Novecento ne Il barbiere di Siviglia, opera che restò sempre in repertorio, il ruolo di Rosina veniva affidato ad un soprano lirico- leggero ( non ad un mezzo- soprano od anche contralto per cui era stato scritto) e l’aria finale del tenore Cessa di più resistere veniva tagliata.
Per diversi anni, Rossini lavorava con scritture e contratti in base ai quali la proprietà dell’opera restava al teatro o all’impresario che la aveva commissionata. Non pare che si curasse eccessivamente degli “adattamenti” da lui non autorizzati in riprese od in altri teatri. In effetti, fu essenzialmente Giuseppe Verdi, con il supporto di Casa Ricordi, che si adoperò per una normativa organica che tentasse di impedire il malcostume di modificare ( tagliando, aggiungendo, interpolando) opere liriche quando venivano riprese o rappresentate in altre città.
Per diversi anni, Rossini venne anche pagato poco. Stendhal sottolineò che, nella prima fase del suo periodo napoletano, i suoi cachet erano la metà di quelli che a Parigi prendeva Feydeau. Propose che venisse invitato in Francia: a Rue Pellettier ( sede, con diversi nomi, dell’Opéra dal 1821 al 1873 quando venne distrutta da un incendio) – scrisse nelle sue memorie – l’accoppiata Feydeau per i testi ( di opere comiche) e Rossini per la musica avrebbero fatto faville e portato incassi sbalorditivi. Man mano che passarono gli anni, Rossini si smaliziò e chiese onerari più consistenti a Barbaja. Il suo capolavoro, grazie all’assistenza di ottimi legali, fu il contratto concluso nel 1824 con l’Académie Royale de Musique, parte integrante del perimetro della pubblica amministrazione del Regno di Francia. Prevedeva un’ «esclusiva» per le future composizioni di opera lirica ( poteva comporre opere per altri dopo una speciale procedura di autorizzazione) sino a quando ne avesse avuto la vena, uno stipendio annuo di 6mila franchi da convertire in pensione quando non avesse più potuto comporre per la scena lirica) e l’obbligo di produrre un’opera nuova ogni due anni dietro un compenso aggiuntivo di 15mila franchi.
L’interpretazione ( riconosciuta corretta dalla Corte di Cassazione francese dopo una lunga vertenza giudiziaria, ben cinque anni) fu tanto lasca, e molto «arcitaliana» da ricordare i film di Steno con Totò o Sordi come protagonisti.
In primo luogo, venne subito autorizzato a comporre una cantata scenica ( Il viaggio a Reims) per il Théâtre des Italiens in occasione delle celebrazioni per l’incoronazione di Carlo X. In secondo luogo, le prime tre opere composte in osservanza del contratto non erano originali ma rifacimenti ed adattamenti al gusto francese: Le siège de Corinthe ( una rarità che il 10 agosto inaugurerà il ROF) di quel
Maometto Secondo che ( in grande anticipo sui tempi) non aveva avuto alcuna fortuna a Napoli e pochissima a Venezia, Moïse et Pharaon adattamento del Mosé in Egitto e Le comte Ory dove trasfuse oltre la metà della musica de Il viaggio a Reims, che era stato eseguito solo tre sere in un teatro frequentato prevalentemente dagli italiani residenti a Parigi. All’epoca, le comunicazioni erano tali che a Parigi pochi sapevano cosa, anni prima, era stato messo in scena a Napoli ed a Venezia.
Nel 1829, ultimo capolavoro per l’Académie Royale de Musique, quel Guillaume Tell ( altra opera che in versioni scorciate e, se del caso, tradotte restò sempre in repertorio, in Francia, Italia e Germania in tutto l’Ottocento).
Sfibrato, dopo il Guillaume Tell, ed alle prese con una depressione che sarebbe stata la più grave e la più lunga della sua vita, invio, per così dire un «certificato medico» per documentare che non avrebbe potuto ottemperare alla stesura di una nuova opera, come previsto dal contratto. Pochi mesi dopo, con la rivoluzione del 1830 ( quella descritta ne Les misérables di Victor Hugo), cambiò regime: iniziarono i 18 anni di regno di Louis Philippe.
Il nuovo governo non aveva alcuna intenzione di proseguire con l’attuazione di un contratto oneroso e che aveva avuto nei primi anni un’applicazione un po’ lasca. Rossini, che dopo Guillaume Tell era andato in Italia per un periodo di riposo, tornò in Francia per seguire la vertenza legale e per tentare un ricucire con Isabella, e vi resto sino al 1836, prestando consulenza gratuita a Carlo Severini, régisseur del Théâtre des Italiens dove portò, ad esempio, Bellini, Donizetti e Mercadante. La vertenza si concluse con la vittoria di Rossini alla Corte della vita di una lauta pensione e di «diritti d’autore» per i titoli rimasti in repertorio ( Il barbiere di Siviglia, L’italiana in Algeri, Semiramide, Guillaume Tell durante il romanticismo ed il verismo).