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Ottanta anni fa moriva a Londra, in fuga dai nazisti, il padre indiscusso della psicoanalisi. Era ebreo e il successo del suo lavoro non bastò a proteggerlo, dovette lasciare l’Austria dove era nato e rifugiarsi in Inghilterra. Fa sorridere che a distanza di tanti anni ci sia una parte dell’accademia che spenda libri e parole per dimostrare quanto e come Sigmund Freud sia superato, quanto la sua elaboratissima teoria sia piena di pecche. È normale che dopo tanti anni la conoscenza della psiche sia andata avanti e che i cambiamenti sociali e individuali pesino anche sul rapporto tra analista e paziente, decretando il superamento di alcune considerazioni che cento anni fa sembravano incontrovertibili. Ma se ancora ci si accanisce a discuterne è perché Freud ha capito più di chiunque altro un principio che mai potrà diventare obsoleto: l’essere umano non è immutabile, non è condannato a restare per sempre quello che il destino ha prefissato per lui. Ognuno può - affrontando il suo mondo interiore, in qualsiasi modo sia fatto questo mondo interiore - vincere le proprie paure, le proprie ossessioni, i propri traumi liberando il desiderio e rafforzando la volontà.
Oggi gli studi sulle neuroscienze sono andati molto avanti e abbiamo conoscenze che erano negate a Freud. Ma la sua intuizione della psiche, dell’intreccio tra conscio e inconscio, il ruolo della sessualità e il rapporto tra individuo e massa restano tutt’ora illuminanti. Ma niente è paragonabile a quella grande utopia che riguarda l’essere umano chiamato a prendere in mano il proprio futuro. È la stessa spinta che Karl Marx dà a livello sociale: la povertà non è iscritta nel dna, non è una condanna a morte, è una violenza frutto dei rapporti di forza che possono e devono essere ribaltati. L’ideale del comunismo ha questa spinta di uguaglianza e di cambiamento sociale che gli stati totalitari nati in suo nome non possono cancellare né dal punto di vista ideale né dal punto di vista storico, là dove grazie all’insegnamento di Marx si sono portate avanti battaglie per i diritti e per le libertà di cui ancora oggi molti di noi godono.
Freud e Marx rappresentano la grande stagione del Novecento, quella spinta utopica che ha determinato decenni di grandi conquiste sociali e individuali. Lo stesso femminismo, definita la rivoluzione più lunga ( che dura tutt’ora) prende spunto dalla psicoanalisi anche se per ribaltarne il segno là dove l’uomo Freud con i suoi pregiudizi prende il sopravvento sul genio che apre la strada allo studio dell’animo umano.
La domanda giusta da porsi non è quindi che cosa è ancora valido del pensiero freudiano ma che cosa viva ancora del suo pensiero in mezzo a noi. Non solo e non tanto l’efficacia del setting psicoanalitico, che perdura come strumento di benessere per tante persone, ma la sua spinta al cambiamento, a credere che l’essere umano non sia un monolite ma un soggetto in divenire. È a partire da questa domanda che Freud risulta opaco. Non la sua teoria, non i suoi studi, superati o meno che siano. Ciò che risulta realmente superato è l’uso che noi facciamo della sua lezione e della sua utopia.
Quando si parla di psicoanalisi è scontato fare il gioco con i politici. Li si immagina seduti sul lettino e si individuano nevrosi, narcisismi, deliri di onnipotenza. Ci mettiamo dalla parte dell’analista, in fondo, con gli occhiali, la penna e il taccuino, pronti a prendere nota delle mancanze altrui. Ma su quel lettino dovremmo metterci un po’ tutti e capire che cosa siamo diventati. Sicuramente abbiamo dimenticato di credere nel cambiamento e riteniamo che ogni aspetto della vita non vada corretto ma solo arginato. Quando parliamo di giustizialismo, oltre che individuare una stortura nell’applicazione del diritto, ci riferiamo a quell’atteggiamento che identifica colui che sbaglia nell’errore commesso. Non sono persone, sono quell’errore e come tali vanno punite. È così che la punizione diventa un modo non per “rieducare”, ma un fine pena mai. Anche quando la pena finisce è come se la società in cui viviamo abbia smesso di credere che chi sbaglia possa cambiare, che la soggettività sia qualcosa di più complesso dello sbaglio in cui si è incorsi. Eppure proprio Cristo, prima di Marx e Freud, aveva creduto in questa possibilità, in questa grande utopia, che è il perdono ma anche qualcosa di più.
Oggi l’abbiamo messa da parte e ne paghiamo le conseguenze. Il cambiamento, sia quello individuato da Freud sia quello che indicato da Marx, richiedono un grande sforzo. Non basta credere in un’utopia, in un ideale. È necessario riflettere, pensare, capire, andare a fondo. È lo sforzo che preferiamo non fare ricorrendo a ricette facili. La condanna, la gogna, il meccanismo del capro espiatorio a cui ci ha abituati il processo mediatico partono da questa rimozione profonda. Per questo non dobbiamo dimenticare Freud. Non smettere di leggerlo. Qualche aspetto della sua teoria sarà superato, ma resta un faro a cui non possiamo rinunciare.