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«Una cosa è certa: i manicomi non torneranno mai più. È una brutta storia finita per sempre grazie alla legge 180 che il 23 maggio compie 40 anni». Franco Rotelli è uno dei protagonisti della riforma psichiatrica italiana, uno dei giovani che negli anni 70 insieme a Franco Basaglia costruisce qualcosa di straordinario per l’Italia e per il mondo: chiudere i manicomi e cambiare completamente l’idea che si ha della psiche, della normalità e della malattia. Un salto culturale e sociale che, con tutti i limiti, è ancora vivo: «È - commenta Rotelli - una delle poche ondate di energia duratura del ‘ 68». Nel 2013 è stato eletto con il Pd nel consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia. Per dieci anni è stato direttore generale dell’azienda sanitaria di Trieste, attualmente presiede la commissione Sanità e politiche sociali della Regione.
Quando incontra Basaglia?
Lo ho conosciuto nell’ospedale psichiatrico di Parma, mi ero appena laureato. Nel ‘ 71 Basaglia vince il concorso a Trieste come direttore dell’ospedale psichiatrico provinciale. Viene chiamato dal primo presidente di centrosinistra, Michele Zanetti, che vuole effettivamente cambiare le cose. Io lo seguo.
Quale situazione trovate?
Trieste sconta in quegli anni il problema degli esuli istriani, trecentomila persone che erano scappate dal loro Paese: un conto era vivere nelle campagne istriane negli anni Quaranta un altro vivere in città negli anni Cinquanta. Arriviamo in un manicomio con 1300 persone in una città che avrebbe dovuto averne molte di meno. Le immagini che ci troviamo davanti sono quelle terribili, immortalate nelle fotografie dell’epoca. Sbarre, contenzione, elettroshock.
I famigerati manicomi: quale legge li regolava?
Era in vigore la legge del 1904, che stabiliva condizioni oggi impensabili: prevedeva che tutte le persone internate in un ospedale psichiatrico fossero da considerarsi pericolose. Non era tanto un giudizio di valore, quanto un principio giuridico: se uno di questi veniva trovato per strada veniva processato. Era considerato come un prigioniero. C’era una presenza, oggi non più pensabile, della magistratura e della questura.
Che cosa decidete di fare?
Cambiare non era facile. Ma a nostro favore c’era l’esperienza di Gorizia, precedente a quella di Parma, che aveva assunto molta importanza a livello nazionale e il successo del libro di Basaglia, pubblicato nel ‘ 68, L’istituzione negata. Zanetti, che era democristiano, dà a Basaglia carta bianca. Si verifica qualcosa di impensabile fino ad allora, qualcosa di irripetibile. La carta bianca viene presa sul serio da Franco che ottiene 30 borse di studio per psicologi e psichiatri. Il clamore mediatico è tale che da tutta Italia arrivano studiosi e volontari. Tanti giovani, tutti molto motivati.
C’è un legame con i movimenti anti autoritari e studenteschi che in quegli anni stanno cambiando la società italiana?
Succede che da un luogo chiuso, oppressivo come il manicomio, nasce un’ondata liberatoria: una delle poche ondate di energia duratura del ‘ 68. Quella generazione di scalmanati riesce a cambiare la realtà dei manicomi, assumendosi grandi responsabilità. Si aprono i reparti, si mescolano uomini e donne, si apre l’ospedale all’esterno. Si modifica lo statuto giuridico delle persone ricoverate. Una piccola legge del ‘ 68 consentiva di poter entrare volontariamente nell’ospedale. Questo voleva dire una cosa ben precisa: che se entravi volontariamente, potevi uscire liberamente. Non eri più costretto a stare, come se fossi un prigioniero. Si crea la figura dell’ospite, che - anche se ricoverato - dal punto di vista giuridico resta un cittadino libero.
Un fatto passato alla storia è quella di un gigantesco cavallo di legno e cartapesta che viene portato in corteo da ospiti, medici, volontari. Si rompe il muro di separazione tra interno ed esterno. Ricorda quel giorno?
Marco Cavallo, questo è il suo nome, viene costruito da Vittorio Basaglia e Giuliano Scabia insieme alle persone che partecipano ai laboratori nati all’interno dell’ospedale. Nel ‘ 73 si attraversa la città: è la rappresentazione scenica del cambiamento che si sta attuando. La città reagisce con interesse, ma le resistenze non sono poche. Il quotidiano Il Piccolo scrive contro di noi articoli molto violenti. Il Pci vuole e non vuole, approva e non approva quello che stiamo facendo. Allora il Pci a Trieste contava molto, era il partito di Vidali con migliaia di iscritti.
Questo dissenso crea una battuta d’arresto?
Assolutamente no. Noi andiamo avanti. C’è un clima da “liberazione”: ogni giorno leviamo qualche vincolo, combattendo contro la paura delle gente e contro le regole. E costruiamo una forma di welfare artigianale: nascono le prime cooperative sociali di persone ricoverate. Fino a quel momento, lavoravano ma senza essere retribuiti. Gradualmente si crea un sistema di protezione sociale. Le persone iniziano a uscire, a trovare casa, a farsi una vita anche senza avere una famiglia.
Qual è la sfida a quel punto?
Alla fine del ‘ 73 non era chiaro se si dovesse riformare l’ospedale psichiatrico - umanizzandolo, abbellendolo e rendendolo più civile - o farlo fuori. Questa opzione fu chiara alla fine del ‘ 74. Pensammo: va distrutto. Altrimenti l’esclusione sarebbe rimasta come elemento fondante.
Era un periodo di grandi discussioni, di un lavorìo intellettuale oggi forse incomprensibile. Ricorda altre querelle?
Un altro dibattito riguardava “il dopo”. Secondo alcuni la malattia mentale non esisteva, era solo una conseguenza del malessere sociale. Noi eravamo convinti che i manicomi andassero chiusi, ma che si dovessero costruire servizi sufficientemente forti nel territorio: servizi che aiutassero le persone a curarsi e a vivere una vita dignitosa. Non volevamo buttare la gente in strada. Volevamo buttare via i manicomi. Dicevamo: le persone vanno curate, assistite, in un altro modo, con un altro paradigma, ma vanno aiutate! In California, negli stessi anni, chiudono i manicomi e le persone finiscono per strada senza alcun sostegno. Oggi fanno i conti con quella scelta e sono venuti da noi a studiare cosa è stato invece fatto in Italia.
Arriviamo così al 23 maggio del 1978, giorno in cui viene approvata la legge 180 che abolisce i manicomi. Che cosa succede?
Il gruppo originario che lavorava con Basaglia, non si muoveva solo in ambito psichiatrico. L’idea era quella di cambiare in generale la qualità della vita, la democrazia di questo Paese, di allargare le sue regole. La sfida era quella di spostare i confini della cosiddetta normalità. Quando arriva la legge che consente di chiudere i manicomi è un passo importante. Ricordo che quando fu approvata fummo sorpresi anche noi, non ce l’aspettavamo che potesse arrivare. Lo stesso Basaglia fu sorpreso dalla velocità con cui fu approvata. Moro era stato da poco ucciso. Questa drammatizzazione portò a una accelerazione impensabile fino a quel momento. Quando arriva la 180, noi abbiamo ancora 500 persone nell’ospedale psichiatrico. Fu molto bello, anche perché eravamo giovani.
Come ricorda quei giorni?
Pochissimi mesi prima dell’approvazione della legge, andammo a occupare una casa. Basaglia non era d’accordo. Ci fu uno scontro all’interno dell’equipe tra chi voleva affrettare le cose sul piano concreto e Franco che temeva ripercussioni negative. Diceva: “State fermi, non rompete troppo, e non estremizzate delle pratiche che rischiano di creare fratture politiche”. Aveva capito che la legge stava per essere approvata. Tutto era messo in discussione: le carceri, le case di riposo, le politiche per i minori - all’epoca c’erano gli orfanotrofi - le classi speciali.
Si mettono in discussione anche i concetti di normalità e di malattia...
La parola malattia applicata a queste questioni è una forzatura, questo non vuol dire che non esista qualcosa che si possa definire malattia, ma solo se diamo un valore relativo a questa parola. Non esiste lo schizofrenico, esistono persone che hanno disturbi schizofrenici. E non è la stessa cosa. Perché se una persona ha dei disturbi schizofrenici, tu puoi parlarci, vedere che cosa puoi fare. Se invece hai davanti lo schizofrenico, hai davanti una totalità che aggredisci riempendolo di farmaci o usandogli violenza. Dire schizofrenico è quindi un semplicismo, ma lo è anche negare che esista un problema di salute mentale. Un disturbo mentale grave comporta un degrado sociale, una distanza dagli altri, un isolamento, una stigmatizzazione, la perdita del lavoro. Se non contrasti tutto questo insieme non risolvi granché. Si deve fare in modo che le persone non precipitino: si deve cioè garantire loro una socialità invece che bombardarli di farmaci.
Come è oggi la situazione italiana?
Rispetto agli anni Sessanta gli aspetti deteriori sono venuti meno. E’ stata assimilata l’idea che i manicomi non si riaprono. Il clima culturale da questo punto di vista è cambiato. E non si torna indietro. Si tratta di un cambiamento irreversibile. Ma mancano i servizi. I centri di salute mentale sono aperti poche ore al giorno e sono chiusi il sabato e la domenica. C’è molto da fare.
Come rilanciare la sfida al cambiamento?
Noi abbiamo elaborato una proposta di legge per il nuovo Parlamento, firmata da Pd e da Liberi e Uguali che presenteremo il 1 febbraio in una conferenza stampa al Senato. Parla di servizi e dice che bisogna destinare il 5 per cento della spesa sanitaria alla salute mentale. I centri di salute mentale devono restare aperti sempre, perché non è che si diventa matti solo i giorni feriali, si ribadisce che la contenzione fisica è proibita, che bisogna sostenere di più le cooperative sociali, i piccoli appartamenti protetti per un numero limitato di persone e che ogni azienda sanitaria deve avere un centro di salute mentale con un budget proprio.
Quindi la legge 180 non si tocca?
Assolutamente non si tocca. La legge 180 resta così. Quella che presentiamo è una legge attuativa della 180. Quando nel 1904 fu approvata la legge per costruire i manicomi, nel 1909 ci fu un regolamento applicativo molto preciso. Con la 180 questo è mancato. Alcune regioni hanno fatto buone leggi, altre no. C’è stato qualche piano nazionale. Ma si tratta di strumenti molto deboli. Noi proponiamo una legge che rafforzi la governance.
A Trieste però ce l’avete fatta, il progetto continua...
Sì ci siamo riusciti sia con le giunte di centrosinistra sia con quelle di centrodestra. È abbastanza dura, perché le regressioni ideologiche sono a portata di mano, perché le logiche di esclusione sono sempre immanenti, la farmacologizzazione dei problemi è sempre la via più semplice, perché le risorse vanno conquistate con le unghie e con i denti. Ma abbiamo resistito: ci sono quattro centri di salute mentale, aperti 24 ore al giorno, una rete di piccoli appartamenti, una rete di cooperative sociali, abbiamo vari laboratori di pittura, teatro, arte, manufatti vari.
Dagli anni Settanta lei ha a che fare con la sofferenza, con il dolore, con tanti problemi. Come ha retto?
Noi abbiamo avuto la fortuna di vivere una dimensione collettiva, siamo stati un gruppo molto ampio, con molti ricambi e un forte legame affettivo oltre che professionale. Negli ultimi anni si fa più fatica, perché tutto è più istituzionalizzato e si è spinti verso la solitudine, l’individualismo. Ma aver mantenuto in piedi servizi abbastanza forti, ha consentito una ossigenazione continua, anche se c’è sempre la preoccupazione che tutto questo possa venire meno.
Ma Basaglia non è stato dimenticato?
La storia che lui rappresenta è come un fiume carsico: sparisce e poi ricompare là dove meno te lo aspetti. Siamo per esempio sorpresi dall’interesse che ci viene mostrato dall’estero, da gruppi di studiosi che vogliono conoscere quello che abbiamo fatto. A volte sono gli stessi governi a mostrare interesse, come è accaduto per il Brasile ai tempi di Lula. I problemi più drammatici di questa storia sono stati superati, quindi essendo meno drammatici sono anche meno evidenti. Il fatto, per esempio, che si sia riusciti a superare gli ospedali psichiatrici giudiziari, anche se con soluzioni che vanno tenute ancora sotto osservazione, è accaduto negli ultimi anni. All’epoca non c’eravamo riusciti.