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Non sa né leggere né scrivere Filumena Marturano, però argomenta meglio di Demostene, può disquisire di legge e diritti, forte dell’espressività che viene dalla vita, dalla strada. Eduardo De Filippo ha creato questo personaggio nel 1946, eppure, nell’interpretazione dirompente di Mariangela D’Abbraccio, Filumena guarda ancora lo spettatore dritto negli occhi e gli parla di maternità, di matrimonio, di legittimità. Gli offre, senza saperlo, una grande lezione di filosofia del diritto. Il diritto naturale di una madre che si scontra con il diritto positivo, la legge del mondo. Un tema da tragedia greca, un personaggio vicino ad Antigone.
Sotto lo sguardo del Presidente Sergio Mattarella, il Teatro Quirino ha ospitato la prima romana del ( felice) debutto alla regia di prosa di Liliana Cavani, con un testo e uno spettacolo che sono piacere della scena, del pensiero.
Giovanissima, Filumena è costretta dalla miseria a prostituirsi. Uno dei suoi clienti, Domenico Soriano, le si affeziona e, un giorno, la porta a vivere con sé. Per venticinque anni, Filumena condivide la casa con Domenico. L’uomo le vuole bene, però ha il sangue di un Don Giovanni, si innamora spesso di altre. La donna allora finge di star male, per farsi sposare in articulo mortis.
Don Domenico cede, convinto di restar presto vedovo e di potersi così risposare con una giovinetta, ma, subito dopo il matrimonio, la moglie “si riprende”.
Compaiono a questo punto i tre figli di Filumena: la donna li ha messi al mondo durante la sua disgraziata giovinezza e li ha mantenuti senza rivelargli di essere la madre e senza dire nulla neppure a Soriano. La protagonista fa chiamare i tre ragazzi ( di cui uno è ormai idraulico, uno giornalista e un altro camiciaio) per confessare loro la verità.
Confida inoltre a Don Domenico che lui è il padre di uno di quei figli, ma non gli dice di chi dei tre. Soriano fa annullare il matrimonio e la caccia. Filumena va ad abitare da Michele, il figlio idraulico. Domenico, però, turbato, si pente, la cerca, decide di sposarla di nuovo. Pur promettendo di affiliarsi tutti e tre i ragazzi, poco prima del matrimonio prova ancora a chiedere alla donna di quale dei tre lui sia il padre naturale. Ma Filumena non cede, perché «‘ E figlie so’ ffiglie... E so’ tutte eguale...», come ammetterà lo stesso Soriano, dopo le nozze.
Tutta la compagnia dà una grande prova nei diversi ruoli. Al di là dei protagonisti, svettano Mimmo Mignemi ( Alfredo) e Nunzia Schiano ( Rosalia): qui caratteristi pieni di arte e di simpatia, capaci di far sorridere nella maniera più intelligente e sincera. Nei panni di Filumena Marturano, Mariangela D’Abbraccio esprime una forza che sradica lo spettatore dalle sue posizioni, lo costringe a confrontarsi con i problemi pratici ed esistenziali di una maternità complessa, in cui legittimità e giustizia non sembrano sempre corrispondere. Temi che anche il diritto italiano ha riaffrontato negli ultimi anni, per esempio nel 2012, con la riforma della filiazione.
L’attore Geppy Gleijeses è un Domenico Soriano trascinante, lacerato da quel dissidio in cui ci proietta la giovinezza che finisce. Don Domenico non si rassegna a lasciare i miti della libertà, ma l’orologio biologico si impone su di lui con un prepotente desiderio di paternità.
Questa edizione della Filumena Marturano emoziona, e non soltanto per la nota grandezza di quello che forse è il più amato fra i testi di Eduardo. La direzione degli attori e gli attori stessi offrono allo spettatore la ricchezza di vocalità, di registri, di contraddizioni, non rinunciano a nessuna delle possibilità pensate da De Filippo.
Senza timidezze, Mariangela D’Abbraccio si mette in dialogo con le grandi interpreti di Filumena ( al cinema come a teatro): Titina De Filippo, Sophia Loren, Pupella Maggio e le altre. Sulle labbra dell’attrice, la lingua napoletana non è un ostacolo per chi ascolta, perché arriva carica di un’espressività carnale, di vitalità. La D’Abbraccio appoggia la sua energia non soltanto sulle grandi battute, come sul celeberrimo «’ E figlie nun se pàvano!» ( «I figli non si pagano» ), ma per mezzo di silenzi significativi, di una gestualità solenne e asciutta, dà corpo a ogni singola parola. Proprio il tema della giustizia riprende il meritato valore nella sua interpretazione: «Vulevo fa’ na truffa! Me vulevo arrubbà nu cugnome! Ma cunuscevo sulo ‘ a legge mia: chella legge ca fa ridere, no chella ca fa chiagnere! ». E quando Mariangela D’Abbraccio ci fa sentire il “chiagnere” di Filumena Marturano, un pianto che la protagonista impara per la prima volta – perché in vita sua non ha mai versato una lacrima – capiamo che finalmente la contraddizione della giustizia si è ricucita, nell’umanità di Don Domenico, nella forza di Filumena.