«La libertà, considerata come autodeterminazione senza limiti, è una libertà negativa. Ne consegue la domanda: lo Stato e la sua morale pubblica devono veramente garantire questa libertà?». Lorenzo d’Avack sa bene che la sua è una domanda difficilissima. Professore di bioetica, membro e già presidente del Comitato nazionale di bioetica (Cnb), non pretende di offrire una risposta, ma ci aiuta a conoscere per deliberare sui dilemmi del nostro tempo. Che non a caso sono solo i nostri, perché sono sempre problemi connessi con la società. Quella attuale (da un po’) si interroga sul desiderio di filiazione come diritto, laddove la tecnica lo permette. E vuole decidere quando morire secondo coscienza. Due questioni che ruotano attorno al valore della dignità umana, e che riempiono l’ultimo libro di d’Avack: “Filiazione e fine vita. Riflessioni bioetiche e giuridiche” (Scholé, Editrice Morcelliana).

Il volume sarà presentato giovedì 10 aprile nella sala stampa della Camera, ore 10, insieme all’autore e al presidente della Pontificia accademia per la vita, monsignor Vincenzo Paglia. Vi prenderanno parte il presidente del Cnf, Francesco Greco, il vicepresidente della Fai, Vittorio Minervini, più due esponenti politici, il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin e la deputata del Pd Michela di Biase (modera il direttore del Dubbio Davide Varì).

Si discute delle leggi già in vigore e quelle in cantiere, ma soprattutto dell’assenza di una legge nei campi più complessi da disciplinare. Siamo all’inizio della vita, prima di essa, e nel confine con la morte. Una terra sconfinata per la filosofia, ma più che tortuosa per il diritto. Fino a dove può spingersi lo Stato, nella pretesa di imporre la sua morale? Nel suo libro Lorenzo d’Avack ha il merito di mettere sul tavolo tutte le argomentazioni in campo, senza liquidare con presunzione ideologica quelle con cui non si trova d’accordo. Né sul suicidio medicalmente assistito, né sulle tecniche di procreazione medicalmente assistita (Pma), come la fecondazione eterologa e la gestazione per altri (Gpa) o maternità surrogata.

Nel primo caso, sul fine vita, l’Italia cerca di darsi delle regole dal 1984, quando ci provò per la prima volta Loris Fortuna, deputato socialista e papà della legge sul divorzio. La svolta è arrivata soltanto nel 2019, con la sentenza 242 della Consulta sul caso Dj Fabo/Cappato. Da allora il suicidio assistito è stato parzialmente legalizzato, quando sussistono quattro requisiti specifici. Le regole, dunque, le hanno scritte i giudici. Che hanno chiesto più volte al legislatore di fare la sua parte, ma il Parlamento non ci è ancora riuscito.

Dopo l’approvazione della legge toscana, prima Regione in Italia a dotarsi di una norma per definire tempi e procedure certe, l’ultimo tentativo si deve ai senatori Zanettin e Ignazio Zullo (FdI), relatori di un testo sul fine vita. La bozza in esame a Palazzo Madama prevede al momento due articoli, il secondo dei quali aggiunge un quinto requisito a quelli sanciti dalla Consulta, stabilendo che il paziente da cui arriva la richiesta sia già inserito in un programma di cure palliative. Un punto critico, o un passo indietro, per chi intravede profili di incostituzionalità nell’imporre un trattamento sanitario obbligatorio come prerequisito. Vedremo.

Sulla Pma, ritroviamo le stesse difficoltà: la legge 40 del 2004 è stata smantellata dalla Consulta un pezzo dopo l’altro, e ora si aspetta che la stessa Corte decida sull’accesso delle donne single alle tecniche riproduttive. Il Parlamento si è mosso rapidamente in un solo caso, per vietare la maternità surrogata anche ai cittadini italiani che si recano all’estero. Il cosiddetto reato universale.

«Siamo di fronte a un capovolgimento culturale della tradizione giuridica in materia di filiazione non originata dalla generica. Si deve ragionare con rigore sulle conseguenze sistematiche provocate dal cambiamento di tale paradigma culturale e non liquidare il tutto pensando che chi pone il problema sia un mero conservatore o un liberale radicale», scrive D’avack. Il quale pone il dibattito sui temi bioetici a metà tra morale e diritto, nella difficoltà di separare l’etica dalla norma giuridica. «La sfiducia nella capacità della ragione umana di elaborare una morale universale porta alla convinzione che la post-modernità non possa che rinunciare a risolvere la tecno-etica e accettare l’inconciliabile frantumazione del politeismo etico».

Bisogna accettare che ogni cittadino abbia le sue idee e le sue convinzioni etiche? È la crisi di fronte alla quale ci pone la tecno-scienza, nel bivio tra “astensione” dello Stato e necessità del diritto. Nel mezzo, è la tesi di d’Avack, si realizza anche la crisi della norma giuridica. Ovvero la sostituzione della regolamentazione giurisprudenziale alle regole legislative. È un fenomeno evidente, cristallizzato nelle decisioni da prima pagina di questi anni: dove non c’è una legge arriva il tribunale, ed è il giudice alla fine a spingere la legge. Ma nell’incapacità di trovare valori in cui riconoscersi tutti, è preferibile affrontare ogni caso secondo la sua specificità, finché non ne viene fuori una regola?

La sentenza non è mai scelta definitiva, dice d’Avack: «Ai problemi suscitati dalle tecnologie, per alcuni bioeticisti appare più opportuno dare “mere risposte” piuttosto che offrire “soluzioni”». Ma c’è un problema, se così si può dire. Non solo per gli orientamenti giurisprudenziali difformi che ne risultano, ma per quello che il professore definisce “l’approccio dell’oracolo”, attingendo dallo schema interpretativo noto agli studiosi di intelligenza artificiale. Qualcosa che ha a che fare con la razionalità del giudice e «l’incertà curva corda della sua discrezionalità». Ovvero con la rappresentazione del giudice «quando i mezzi di comunicazione di massa vengono usati per legittimare “carismaticamente” le sue decisioni, senza che il pubblico sia messo in condizione di poterle valutare compiutamente attraverso un’adeguata informazione». Una ragione di più, insomma, per leggere il libro di Lorenzo d’Avack.