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Aveva 71 anni e un nome altisonante: Angelo Epaminonda. Era un catanese, ma era stato, da giovane, il capo dei capi della malavita milanese.
Aveva sbaragliato Turatello e i suoi. Poi era scomparso. Si è beccato un tumore, e ad aprile è morto. Solo, dimenticato. Tanto che nessuno sapeva che fosse morto. Poi l’altro giorno è stato convocato per fare da testimone a un processo su un delitto di quegli anni. I carabinieri sono andati a cercarlo e hanno scoperto che aveva tiorato le cuoia.
Li aveva a fianco, uno a destra e uno a sinistra. È così che camminano i boss nei cortili del carcere. Antonino Faro era a destra e Salvatore Maltese a sinistra. Del clan dei catanesi. Un gruppo di fuoco che faceva cacare sotto tutti: arrivavano a Milano da Catania, andavano dove dovevano andare, sparavano a tutto quello che c’era da sparare, se ne tornavano a Catania. O forse erano Faro a sinistra e Maltese a destra. Poi, davanti c’era Vincenzo Andraous, che in carcere c’era praticamente vissuto sempre e non so quanti ne aveva ammazzati. Dietro c’era Pasquale Barra, che invece si sapeva quanti ne aveva ammazzati: sedici. Li segnava sul petto con un tatuaggio, mettendo una croce su una bara che s’era fatto disegnare sul torace – così, se proprio volevi toglierti la curiosità, le potevi contare quelle croci. O forse c’era Andraous dietro, e Barra davanti.
I boss camminano così nei cortili del carcere, con i loro soldati vicino, gli assassini. È un segno di potenza, è un segno di rispetto. E lui era un vero boss, lui, Francis Turatello “Faccia d’angelo”. A Milano comandava lui, bische, prostituzione, cocaina, rapine – tutto sotto di lui. E giravano fiumi di soldi a Milano, c’era l‘ inflazione a due cifre, ma tutti si sentivano ricchi. E ogni volta che lo arrestavano in quattro e quattr’otto era fuori – sai che ci vuole, quando sul libro dei debiti hai segnato giudici e poliziotti col vizietto delle carte? Adesso lo avevano arrestato di nuovo ma ancora comandava, ancora controllava lui le cose, ancora dava ordini, anche se c’era chi voleva fargli le scarpe, toglierselo di mezzo e prendersi in mano tutto. Badu ‘ e Carros, buco del culo della Sardegna, supercarcere speciale – estate del 1981 –, è di questo che stiamo parlando.
Così, Maltese fa un segnale a Faro, e Andraous fa un segnale a Barra; o è Barra che fa un segnale a Maltese, chissà come è andata. Tutto un groviglio di corpi. Due lo bloccano da dietro – è un pezzo d’uomo Francis Turatello – e due lo colpiscono davanti. Coi coltelli, perché intanto sono spuntati i coltelli. Nel supercarcere speciale di Badu ‘ e Carros – buco del culo della Sardegna. Bisogna colpire veloce coi coltelli, e colpire dove esce sangue assai, perché così lo indebolisci e non resiste e crolla e tu colpisci ancora e ancora. È un pezzo d’uomo, Faccia d’angelo, e bisogna colpire molto veloce e bisogna fargli uscire molto sangue.
Gliene diedero quaranta di coltellate – venti a testa, Faro e Maltese, o Barra e Andraous, chissà come è andata. Tutto un groviglio di corpi. Af- fondarono i coltelli che Turatello aveva tutte le viscere di fuori e il petto e la gola squarciati – le guardie, dall’alto della recinzione del cortile, erano paralizzate da quella ferocia, terrorizzate, ci misero un bel po’ a entrare. Dissero, poi, che Pasquale Barra aveva dato un morso alle viscere, o forse al cuore – ma è per via della cattiva fama, è per via che lo chiamavano ‘ O animale.
Così, nel cortile del supercarcere di Badu ‘ e Carros si decise chi doveva comandare a Milano. I catanesi erano uomini di Angelo Epaminonda, il Tebano; Andraous e Barra erano uomini di Raffaele Cutolo, Nuova Camorra Organizzata. Forse Cutolo fece un favore al Tebano, fece una nuova alleanza. Lo aveva già fatto negli anni Settanta, quando non era ancora nessuno: aveva fatto un favore ai boss emergenti della ndrangheta che volevano togliersi di mezzo i vecchi capi, quelli che ancora stavano alle leggi antiche e non volevano saperne del filone d’oro che stava arrivando con la droga. Così, avevano deciso di farlo fuori, al vecchio boss di rispetto, a Domenico Tripodo. E incaricarono Raffaele Cutolo che incaricò Pasquale Barra, che lo uccise nell’ospedale del carcere di Poggioreale, e si fece una sua nuova bella croce sul tatuaggio con la bara. È così che si formano le alleanze.
Ma Cutolo rinnegò sempre, lui non c’entrava niente. E pure Epaminonda il Tebano rinnegò sempre, lui non c’entrava niente, anche se a Milano, dopo che avevano ammazzato Turatello, ora comandava lui, bische, prostituzione, tutto sotto di lui. E qualcosa del traffico di cocaina ai napoletani, gli avevano fatto il favore, no? Anche quando parlò, e raccontò ogni dettaglio di quarantaquattro omicidi – li raccoglievano con le ruspe, la mattina, i cadaveri a Milano in quegli anni – e lui se ne tirò diciassette, a Turatello non lo confessò mai.
Era stato troppo uno schifo. Si pentirono tutti, Maltese, Andraous, Barra, poi Faro cercò d’ammazzare Andraous, durante un processo, poi i catanesi si spararono gli uni con gli altri, nelle gabbie di un processo – erano rimasti soli, e questo poteva significare solo una cosa, che in qualche cortile d’un carcere li avrebbero sventrati presto. E chiesero protezione, chi a altri boss, chi ai giudici: Barra divenne l’accusatore di Tortora, Barra che fuori dal carcere su quarant’anni di vita c’era stato sì e no qualche mese. E ai pm – figurarsi, ‘ O animale – non gli pareva vero.
Ma ora finalmente il Tebano era il re di Milano. Il re delle bische, quelle che la ricca borghesia frequentava lasciando ai tavoli montagne di denaro e proprietà, per il brivido del gioco e delle cattive frequentazioni. E si allarga fino alla riviera romagnola, e tanto per far capire come stanno le cose ammazza a uno che non voleva piegarsi e a un altro per far capire come stanno le cose. Che strano contrappasso della vita, per uno che c’era arrivato ragazzino, in Lombardia, trascinato dal padre che era dovuto scappare da Catania per debiti di gioco, essere ora il re delle bische. Aveva cominciato in fabbrica – chi non andava in fabbrica negli anni Sessanta? – prima un mobilificio, poi Arese, ma non era cosa sua lavorare otto ore e stare sotto padrone, a lui piacevano le belle donne e le belle automobili. Era sveglio, quel piccolo catanese scuro di capelli e moro come un saraceno. Va in giro la notte, gioca, entra nel giro, capisce le regole, fa carriera – Turatello gli affida due bische, è un suo luogotenente, l’uomo di fiducia, che le gestisca bene.
Turatello li sa premiare i suoi uomini, se portano rispetto, se sanno chi comanda, lui li premia, gli dà un territorio e loro lo governano per conto suo. Solo con Vallanzasca Turatello non va d’accordo, anzi proprio non si sopportano. Ma Vallanzasca è un cane pazzo, fa rapine senza risparmio, fa sequestri, si porta dietro la polizia di mezzo mondo, uccide agenti, evade, fa sempre troppo casino, troppa pubblicità: il re della Comasina è un gran rompimento di coglioni.
Dicevano che Turatello fosse figlio naturale di Frank Tre Dita Coppola, un siciliano di Partinico che se n’era andato in America prima della guerra per fare fortuna e poi ne era stato espulso nel 1948 come mafioso. E qui, in Italia, aveva cominciato a trafficare con gli stupefacenti con gli italo- americani di Cosa Nostra. Ma Turatello non s’era mai affiliato a Cosa Nostra – o almeno, non risulta. Però doveva averne imparato le regole – forse lo aveva svezzato Tre Dita, o forse no. Perché per comandare una città come Milano, ci vogliono le regole. Quelle che non gli entravano in testa a Renatino.
Poi, in carcere Francis Faccia d’angelo e Renatino s’erano rappacificati – la verità era che Vallanzasca in carcere non aveva protezione, e a qualunque scemo gli poteva venire in mente di farsi bello aprendogli la pancia – e lui, Turatello, gli aveva fatto il testimone di nozze, champagne per tutti, e aragosta, aprite le celle, pure per le guardie, e pure per il direttore. Manco fosse una delle notti di Milano. Così, s’erano messi in posa per la foto, con i loro tight e il fiore all’occhiello e il calice sollevato – che ancora Turatello comandava, che ancora Epaminonda non aveva pensato che forse era il momento di prendersi tutto il cocuzzaro, altro che due bische in comodato d’uso.
S’era costruito una leggenda così, Epaminonda, già con quel nome che incuteva rispetto – socievole, e sempre allegro, gran giocatore, gran bevitore. Feroce, con quella sua squadra di assassini – gli “indiani” – che venivano da Catania e facevano l’abisso intorno. Magari erano loro che comandavano, i catanesi, e lui era solo di facciata, chissà come stavano le cose.
Ma quando lo presero – Epaminonda non parla, scommettevano tutti – si cantò pure quella povera donna di sua madre. Lo arrestano nel 1984 – tre, cinque anni era durato il suo regno – e stavolta le cose sono cambiate, ci sono magistrati puliti e poliziotti puliti, non si può più andare avanti così a Milano, che la mattina si raccolgono i cadaveri con le ruspe. E ci mette dieci minuti a decidere di parlare – in carcere sarebbe morto co- me un cane, con le mani a tenersi le viscere. Ma a Turatello non lo confessò mai. Era stato troppo uno schifo. E neanche la strage di Moncucco confessò mai.
Che nessuno capì mai come andarono le cose, in quella trattoria fuori Milano. La gestiva un uomo di Turatello, Prudente, legato al clan dei pugliesi. È una sera di novembre del 1979. Turatello è in carcere dal 1977, ma gli uomini che gli erano fedeli lo sono ancora. Forse. Non tutti. Prudente sì.
Le alleanze si vanno scombinando e ricombinando, tra catanesi, pugliesi, napoletani, calabresi: la piazza di Milano è ricca e nessuno vuole spartire. È tardi, è ora di chiudere. Prudente e la sua compagna non vedono l’ora che gli ultimi clienti se ne vadano – e anche la cuoca. Poi entrano due nuovi clienti, aspettano qualcuno, faranno in fretta, dicono, ordinano per quattro. Un attimo e tirano fuori le pistole, uno sparaspara che neanche nella Chicago di Al Capone: ammazzano Prudente e la compagna, ammazzano i clienti, ammazzano pure la cuoca, un colpo alla testa, davanti la porta della cucina. Otto morti. Tipo la strage di San Valentino. E se ne vanno. Nessuno capì che cosa era successo. Chi era contro chi, chi stava con chi. Ma chi doveva capire capì. Epaminonda si vuole prendere tutto il cocuzzaro.
Epaminonda è morto a aprile. Era in uno dei programmi per i pentiti. L’avevano condannato a ventinove anni – nonostante si fosse cantato pure il gatto. Ma era sotto protezione, in un qualche buco di culo del Lazio. Gestiva un alimentari – buongiorno signora, vuole un mezzo chilo di ricotta fresca fresca?
È morto a aprile, ma s’è saputo solo ora, perché lo avevano convocato in un processo a Torino, che magari sapeva qualcosa, e così s’è scoperto che aveva tirato le cuoia. Un tumore.
Chissà se regoleranno i conti ora, all’inferno, il Tebano e Faccia d’angelo.