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La sera del 12 dicembre del 1980 un cronista del Messaggero riceve una telefonata: “Qui Br. Abbiamo prelevato il magistrato Giovanni D’Urso. Chiediamo la soppressione del carcere dell’Asinara. Segue comunicato”. In quel tempo lavoravo nel giornale romano. Il direttore era Vittorio Emiliani.
Immediatamente si riformarono gli schieramenti politici che avevano caratterizzato la vicenda di Moro: il “fronte della fermezza” e il “fronte della trattativa”. Il primo era costituito dai comunisti, dai repubblicani e dai missini, più tiepidi e divisi al loro interno i democristiani. Il secondo, dai radicali e dai socialisti. Ma questa volta furono i giornali a giocare un ruolo di primo piano, perché le Br chiesero la pubblicazione dei loro comunicati. Pubblicare o no? Salvare D’Urso o lasciare che l’uccidessero?
Erano passati due anni e mezzo dall’assassinio di Aldo Moro quando l’Italia fu scossa da un caso che presentava molte analogie con le circostanze che erano costate la vita allo statista democristiano e che, come nei giorni del caso Moro, divise profondamente il mondo politico italiano. Il 12 dicembre del 1980 le Brigate rosse rapirono il magistrato Giovanni D’Urso, direttore dell’ufficio III della Direzione generale degli istituti di prevenzione e pena del ministero di Grazia e Giustizia. A differenza di quanto era accaduto a Moro, D’Urso non fu ucciso. Il 15 gennaio del 1981, dopo più di un mese dal rapimento, fu liberato. Ma cosa accadde in quel mese? Quale partita fu giocata sulla pelle del magistrato? E quali erano le forze in campo?
Andiamo con ordine. La sera del 12 dicembre un cronista de Il Messaggero riceve un insolita telefonata: “Qui Br. Abbiamo prelevato il magistrato Giovanni D’Urso. Chiediamo la soppressione del carcere dell’Asinara. Segue comunicato”. In quel tempo lavoravo nel giornale romano. Il direttore era Vittorio Emiliani, che aveva formato una bella equipe nominando condirettore l’ex bravissimo capocronista, Silvano Rizza, vicedirettore Felice La Rocca, che conosceva Il Messaggero come le sue tasche, e redattore capo Pino Geraci, che aveva ricoperto lo stesso incarico al Giornale di Sicilia. La squadra, insieme con tutta la redazione, fu all’altezza della situazione, in quelle ore e nei giorni successivi. Di D’Urso, fu appurato, non c’era traccia. E il giornale del 13 dicembre uscì con un titolo di prima pagina a sette colonne che annunciava il rapimento del magistrato ad opera delle Brigate rosse. Nello stesso giorno le Br si fecero vive con l’annunciato comunicato, diffuso insieme con una fotografia del giudice. Vi si leggeva che D’Urso, “aguzzino di migliaia di proletari”, “è in un carcere del popolo e verrà sottoposto con un processo al giudizio del proletariato”. Il documento si chiudeva con un imperativo: “CHIUDERE L’ASINARA”, il carcere di massima sicurezza che sorgeva sull’omonima isola sarda e che era adibito alla reclusione di brigatisti.
Immediatamente si riformarono gli schieramenti politici che avevano caratterizzato la vicenda di Moro, fino alla sua morte: il “fronte della fermezza” e il “fronte della trattativa”. Il primo era costituito dai comunisti, dai repubblicani e dai missini, più tiepidi e divisi al loro interno i democristiani. Il secondo, dai radicali e dai socialisti. Ma questa volta sono i giornali a giocare un ruolo di primo piano, soprattutto nella seconda fase della vicenda. Gli intransigenti si fanno sentire subito, il 14 dicembre. Il comunista Ugo Pecchioli, il più autorevole dirigente del Pci dopo Berlinguer, afferma: “Ogni cedimento ai ricatti sarebbe inaccettabile”. Gli fa eco il repubblicano Leo Valiani: “È necessario rispondere con la stessa fermezza con cui si rispose al sequestro Moro”. Il 15 dicembre i brigatisti ripropongono in un secondo comunicato la richiesta di una chiusura immediata dell’Asinara, aggiungendo che D’Urso “sta bene e risponde all’interrogatorio”.
Il giorno dopo, in Parlamento, i radicali sono i primi a schierarsi sul fronte umanitario. Franco De Cataldo: “Qualsiasi tentativo deve essere fatto per salvare la vita di D’Urso”. E Marco Boato: “Chiudere il carcere dell’Asinara e rivedere tutto il regime delle carceri speciali è una rivendicazione sacrosanta che dobbiamo portare avanti autonomamente, con forza”. Per la verità, la chiusura del carcere di massima sicurezza era stata già programmata, ma l’attuazione era stata rinviata a tempo indeterminato.
Seguono dieci giorni di incertezza. Il governo, presieduto da Arnaldo Forlani, è diviso, con una maggioranza di possibilisti, dal ministro di Grazia e Giustizia, Adolfo Sarti, al ministro dell’Interno, Virginio Rognoni. Ed è Rognoni ad affermare, a chiusura del dibattito parlamentare sul rapimento: “Il governo non lascerà nulla d’intentato, nei limiti delle possibilità, per raggiungere l’obiettivo, oggi primario, della restituzione del giudice D’Urso alla sua famiglia”. Si delinea anche tra i giornali la divisione tra intransigenti e trattativisti. Il direttore de Il Messaggero decide di tenere una linea “laicamente possibilista” per “non ripetere il caso Moro”.
Radio radicale dedica molte ore alla vicenda del giudice. I brigatisti, il 18 e il 23 dicembre, informano con due comunicati che “l’interrogatorio del prigioniero D’Urso prosegue”. E continuano a richiedere l’immediata chiusura dell’Asinara.
Il giorno di Natale i socialisti rompono ogni indugio. Il segretario del Psi, Bettino Craxi, fa diffondere un comunicato della direzione del partito, nel quale si afferma che la chiusura dell’Asinara coincide con un “adempimento giustificato e da più parti richiesto”. Il giorno dopo il ministro Sarti annuncia lo sgombero del carcere, A questo punto è ragionevole supporre che le Br, soddisfatta la loro richiesta, rilascino D’Urso. Ma, all’improvviso si apre, con una rivolta carceraria e con una tragedia, la seconda fase della vicenda. Il 28 dicembre, domenica, nel carcere di Trani, dopo l’ora d’aria, il brigatista Seghetti aggredisce il capo delle guardie e lo sequestra. Una settantina di detenuti cattura le altre guardie e si asserraglia nella sezione speciale del carcere. Ma dura poco. Nel pomeriggio del giorno successivo entrano in azione i gruppi d’intervento speciale dei carabinieri. Scendono dagli elicotteri, impiegano bombe al magnesio e armi da fuoco, domano in breve tempo la rivolta. Non ci sono vittime, ventisette feriti tra i rivoltosi.
Tre giorni dopo, alle 18,30 il generale Enrico Galvaligi ritorna a casa. Il generale è il vice comandante del coordinamento dei servizi di sicurezza per gli istituti di prevenzione e pena. In quei giorni ha avuto parecchio da fare. È lui, infatti, che ha diretto da Roma l’operazione di repressione della rivolta di Trani. Ora sta per raggiungere moglie e figli e festeggiare insieme con loro l’arrivo del nuovo anno. Non ha scorta. E, nell’androne di casa, trova due brigatisti travestiti da fattorini postali. Dicono di volergli consegnare un pacco, ma uno dei due impugna rapidamente una pistola e gliela scarica addosso. Il generale non ha scampo.
L’assassinio di Galvaligi è la reazione vendicativa delle Br all’operazione guidata dal generale. Ma non è la sola. Il 29 dicembre, lo stesso giorno del blitz dei carabinieri, i brigatisti alzano la posta con un ultimatum. I nostri comunicati, affermano, “devono essere pubblicati immediatamente e integralmente”. E ancora: “Se quanto sopra verrà disatteso, agiremo di conseguenza”. Il 4 gennaio sono più espliciti. Da un lato annunciano la condanna a morte del magistrato. Dall’altro affermano che “l’opportunità di eseguirla o di sospenderla deve essere valutata politicamente”. E che “per decidere se eseguire o sospendere l’esecuzione di D’Urso i comunicati dovranno essere trasmessi dai vostri strumenti televisivi, letti sui maggiori quotidiani italiani”.
Ma di quali comunicati si tratta? Di una serie di fogli che i brigatisti detenuti hanno consegnato ai deputati radicali durante una loro visita al carcere. Sono scritti da Renato Curcio e contengono le abituali farneticanti accuse allo Stato imperialista e la rivendicazione delle lotte “proletarie” delle Brigate rosse.
A questo punto la parola passa ai giornali. Sono loro, non il governo, gli interlocutori dei brigatisti. Che fare? Il Tempo diretto da Gianni Letta e Il Corriere della Sera, diretto da Franco Di Bella, annunciano il silenzio stampa su tutte le notizie che riguardano il terrorismo e chiedono agli altri giornali di fare altrettanto. Il Messaggero si oppone nettamente. Avrebbe continuato a dare tutte le informazioni sul terrorismo. Ma neanche gli altri giornali raccolgono l’invito, neppure La Repubblica, pur schierata da Eugenio Scalfari sul fronte della fermezza. Restava l’interrogativo: pubblicare o no i comunicati dei brigatisti? “Non pubblicare” è la linea dura del Corriere della Sera, di Repubblica, della Stampa, del Tempo, dell’Unità, di Paese Sera, dell’Avvenire, del Mattino, del Resto del Carlino, del Giornale, seguiti da una serie di giornali minori; una linea ancora una volta sostenuta con ferrea decisione dai comunisti, dai repubblicani, dai missini e dagli ambienti più conservatori del mondo cattolico. L’Espresso è contrario alla pubblicazione, ma non rinuncia agli scoop. Così, lo stesso giorno dell’omicidio Galvaligi, il 31 dicembre, viene arrestato il giornalista del settimanale, Mario Scialoja, che aveva ricevuto dal brigatista Giovanni Senzani ( e pubblicato) il resoconto dell’interrogatorio di D’Urso da parte delle Br.
Al Messaggero la vicenda è seguita dalla direzione e dal corpo redazionale con viva partecipazione. Il giornale romano è laico e garantista, è stato protagonista di battaglie libertarie, a cominciare da quella per il divorzio. Non può restare insensibile alla sorte di D’Urso. L’assemblea di redazione si riunisce in permanenza e la maggioranza dei sostenitori della pubblicazione si scontra con una minoranza di contrari. La direzione, malgrado il parere avverso della proprietà, si attesta su una linea “marcatamente aperturista, possibilista”. E pubblica un’intervista a Leonardo Sciascia, nella quale lo scrittore siciliano sostiene che “il cittadino ha il diritto di essere informato, anzi a formarsi un’opinione, su qualsiasi argomento”. Il 10 gennaio, Sciascia lancia un appello ai giornali, sottoscritto da settanta giornalisti e personalità in vista, invitandoli alla pubblicazione dei documenti delle Br. I primi nomi in calce all’appello sono quelli di Elena Moro, Stella Tobagi e Andrea Casalegno. E due giorni dopo, con un secondo appello, rivolge ai direttori dei giornali italiani lo stesso invito, nominandoli uno ad uno.
Il Corriere della Sera, con il quale Sciascia aveva un contratto di collaborazione, non da notizia dell’ intervista e non pubblica gli appelli.
Altri giornali non contrari alla pubblicazione sono l’Avanti, il Secolo XIX, Lotta continua, Il manifesto.
Giuliano Zincone dirige il genovese Il lavoro, del gruppo Rizzoli. È possibilista, ma non lo sono i vertici del gruppo. Non lo è Angelo Rizzoli, non lo è Bruno Tassan Din, direttore generale di Rcs, non lo è Franco Di Bella, direttore de Il Corriere della Sera. I nomi di tutti e tre compariranno, dopo qualche tempo, negli elenchi degli iscritti alla loggia massonica P2, guidata da Licio Gelli. Ed è Leonar- do Iorio, direttore editoriale del Corriere, a ingiungere a Zincone, in nome del gruppo, di non pubblicare i documenti delle Br. La risposta è: “Se lo riterrò opportuno pubblicherò e subito dopo mi dimetterò dalla direzione del Lavoro. Il Giorno si impegna alla pubblicazione dei documenti dopo la liberazione di D’Urso. Il direttore della Nazione, Gianfranco Piazzesi, vorrebbe pubblicare, ma ne è impedito dal proprietario del gruppo che comprende anche il giornale fiorentino, Attilio Monti, anche lui, si saprà dopo, negli elenchi della P2.
L’attività dei radicali è frenetica. Il 12 gennaio cedono la loro tribuna politica televisiva a una figlia di D’Urso, Lorena ( oggi giornalista a Radio radicale), che lancia un appello alle Br e ai direttori dei giornali. La ragazza legge anche un brano dei documenti. Ha le lacrime agli occhi quando nel corso della lettura deve dare del “boia” al padre. E non passa giorno che Radio radicale, Pannella e altri esponenti del partito non intervengano sul caso.
L’ultimo messaggio dei brigatisti è del 10 gennaio. Non lascia spazio a interpretazioni: “Se entro 48 ore mon leggeremo integralmente sui maggiori quotidiani italiani i comunicati, daremo senz’altro corso all’esecuzione della sentenza a cui D’Urso è stato condannato”.
A questo punto bisogna decidere. Il possibilismo e la non contrarietà non bastano più. L’onere della decisione spetta soprattutto al Messaggero, il più diffuso tra i giornali che puntano alla liberazione del magistrato. L’assemblea di redazione è sempre più infuocata. Assistono ai suoi lavori la moglie di D’Urso, Franca, e le due figlie. Non sembrano esserci spazi di mediazione tra la maggioranza favorevole alla pubblicazione e la minoranza contraria. Si sta per arrivare a una votazione che avrebbe spaccato in due il giornale, quando arriva in assemblea il direttore, Emiliani. “La nostra linea umanitaria è nota”, dice, “non condividiamo nulla di quei comunicati deliranti, ma siamo disposti a pubblicarli soltanto per ragioni squisitamente umanitarie. Vi scongiuro di non giungere a un voto che creerebbe fratture gravi tra di noi. La responsabilità del giornale è mia e la rivendico pienamente, nel bene e nel male”. Non si vota. La decisione è presa. E confermata da un corsivo indirizzato alle brigate rosse che Emiliani scrive l’indomani sulla prima pagina del giornale. Indirettamente, i brigatisti fanno sapere che accettano la pubblicazione “per ragioni umanitarie”.
Il 14 gennaio Il Messaggero pubblica integralmente i comunicati delle Br. Contemporaneamente pubblicano l’Avanti, il Secolo XIX, Lotta continua, Il Manifesto e Notizie radicali. Pubblica anche Il Lavoro e Zincone si dimette dalla direzione. Ritorna al Corriere della Sera, ma dopo poco tempo lascerà anche questo giornale.
Il Messaggero accompagna la pubblicazione con un editoriale che puntualizza: “È una decisione soltanto umanitaria, non politica”.
Nello stesso 14 gennaio Leonardo Sciascia pubblica un terzo appello, rivolgendosi direttamente ai brigatisti.
La mattina del 15 gennaio D’Urso viene ritrovato al Portico di Ottavia, a Roma, incatenato in un’auto, occhi e bocca coperti da cerotti, ma vivo.
L’incubo è cessato. Non si è ripetuta la tragica conclusione del caso Moro. I sostenitori della “fermezza” sono stati sconfitti. Sconfitti i comunisti e la loro visione leninista dello Stato. Sconfitta l’intransigenza di stampo risorgimentale dei repubblicani. Sconfitti i missini, i piduisti di Gelli e quanti auspicavano, con la morte di D’Urso, la fine del governo quadripartito di Forlani e una virata a destra dell’asse governativo. Una vita umana è stata salvata. Due giorni dopo Sciascia viene al Messaggero, accolto da un applauso. Si congratula con Emiliani per la linea umanitaria tenuta in tutta la vicenda e s’impegna a collaborare al giornale. Il francese Le monde pubblica una vignetta che mostra D’Urso in viaggio verso la libertà su un aereo del Messaggero.