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L’aveva già messo nei suoi discorsi, il fatto del sogno, in Alabama, in Mississippi, in South Carolina. Ma non prendeva – vai poi a capire perché. Qualcuno dei suoi collaboratori, convinto che lo avrebbe messo anche questa volta, glielo disse esplicitamente, quando King si chiuse nella sua stanza per preparare il discorso – Non metterlo il fatto del sogno, reverendo. E lui sembrava convinto.
Aveva incontrato il presidente Kennedy e il vicepresidente Johnson, insieme a tutto il gruppo dirigente della Southern Christian Leadership Conference – al tempo delle elezioni presidenziali Kennedy aveva voluto parlare con King, promettendo un impegno nella lotta per i diritti civili.
Il settanta per cento della comunità afroamericana poi lo aveva votato come proprio presidente. Era stato anche grazie all’impegno della Casa bianca che la SCLC aveva organizzato le campagne nel Sud per il diritto di voto, soprattutto in Mississippi e in Georgia, quando giovani studenti bianchi partivano dal nord per andare negli Stati del Sud e aiutare le lotte dei neri per la registrazione negli elenchi dei votanti e per abolire le forme più odiose della discriminazione razziale, sugli autobus, nei ristoranti, nelle scuole. Subivano agguati e pestaggi da razzisti del Ku Klux Klan spesso con la faccia delle istituzioni.
Ma ora Kennedy era molto preoccupato e quella marcia proprio non la voleva: c’era stato un vero e proprio braccio di ferro durante la campagna in Alabama, che era diventata simbolica del segregazionismo, soprattutto per la durezza del suo governatore George Wallace. L’ 11 giugno 1963, con i suoi sostenitori, Wallace si era presentato davanti all’Università dell’Alabama per impedire la desegregazione dell’istituto e l’entrata ai corsi dei primi due studenti neri, Vivian Malone e James Hood, che erano scortati e protetti dalla Guardia Nazionale, dal Marshall federale e dal procuratore dello Stato. I due allievi sarebbero entrati comunque nell’università tra le urla della folla. Kennedy temeva che quella marcia avrebbe finito con alimentare il conflitto, lo scontro, ma non poteva certo dire al reverendo King di non farla. Però, John e Bob si prepararono al peggio e richiamarono a Washington oltre cinquemila riservisti per fornire assistenza, e vennero vietati gli alcolici. «Sembrava che ci fossero più poliziotti che manifestanti» scrisse il «New York Times».
Così, Clarence Benjamin Jones, consigliere e amico intimo del dottor King, lo aveva aiutato a buttare giù i temi di quel discorso – la gente arrivava per il salario minimo a due dollari, il passaggio di un disegno di legge significativo sui diritti civili, la fine della segregazione razziale nelle scuole, un programma di lavori pubblici federale e il blocco delle pratiche di lavoro scorrette.
Era su questa traccia che il dottor reverendo Martin Luther King aveva iniziato il suo discorso il 28 agosto del 1963, una lunga estate calda: «Siamo venuti nella capitale del nostro paese per incassare un assegno. Quando gli architetti della nostra repubblica hanno scritto le magnifiche parole della Costituzione e della Dichiarazione d’indipendenza, hanno firmato un “pagherò” di cui ciascun americano era destinato a ereditare la titolarità. Il “pagherò” conteneva la promessa che a tutti gli uomini, sì, ai neri come ai bianchi, sarebbero stati garantiti questi diritti inalienabili: “Vita, libertà e ricerca della felicità”. Oggi appare evidente che per quanto riguarda i cittadini americani di colore, l’America ha mancato di onorare il suo impegno debitorio. Invece di adempiere a questo sacro dovere, l’America ha dato al popolo nero un assegno a vuoto».
King, che usava molto nella sua oratoria riferirsi alla Bibbia, cadenzava ritmicamente i suoi discorsi, come fossero preghiere, come fossero gospel. Ripeteva una locuzione più volte. Quel giorno, usò «Now is the time / è adesso il momento». «Now is the time to make real the promises of democracy. Now is the time to rise from the dark. Now is the time to lift our nation. Now is the time to make justice / È adesso il momento per rendere concrete le promesse della democrazia. È adesso il momento per uscire dal buio. È adesso il momento per sollevare la nostra nazione. È adesso il momento per fare giustizia».
E poi usò «We can never be satisfied / non possiamo dirci soddisfatti». We can never be satisfied, finché i neri continueranno a subire gli indescrivibili orrori della brutalità poliziesca. Non potremo mai essere soddisfatti, finché non riusciremo a trovare alloggio nei motel. Non potremo mai essere soddisfatti, finché tutta la facoltà di movimento dei neri resterà limitata alla possibilità di trasferirsi da un piccolo ghetto a uno più grande. Non potremo mai essere soddisfatti, finché i nostri figli continueranno a essere spogliati dell’identità e derubati della dignità dai cartelli su cui sta scritto “Riservato ai bianchi”. Non potremo mai essere soddisfatti, finché i neri del Mississippi non potranno votare e i neri di New York crederanno di non avere niente per cui votare. No, no, non siamo soddisfatti e non saremo mai soddisfatti, finché la giustizia non scorrerà come l’acqua».
La gente applaude, il reverendo sa come parlare al cuore delle persone – e lì, al Lincoln memoria di Washington, sono venuti in duecentocinquantamila, da tutta l’America, bianchi e neri. C’è tutta Hollywood anche, e le grandi voci del rock, Joan Baez, Bob Dylan. Si sente che questo è un giorno che apparterrà alla Storia. Ma le parole del reverendo sono ancora ancorate a quella traccia scritta, forse non volano come tutti vorrebbero, come il giorno vorrebbe. È a questo punto che Mahalia Jackson, la regina del gospel, gli grida: «Digli del sogno, Martin».
E il reverendo King mette da parte i fogli, e inizia a parlare a braccio. Io ho ancora un sogno ed è profondamente radicato nel sogno americano. «I have a dream that one day this nation will rise up. I have a dream that one day on the red hills of Georgia, the sons of former slaves. I have a dream that one day even the state of Mississippi. I have a dream that my four little children. I have a dream that one day down in Alabama with its vicious racists. I have a dream that one day every valley shall be exalted».
Sembrava di stare in una chiesa, una chiesa immensa all’aperto – ricorderà qualcuno, quando il prete dice un passo e i fedeli lo ripetono. In duecentocinquantamila al Lincoln Memorial ripetevano quell’I have a dream. Quale potenza.
È un momento di grande speranza per l’America tutta, per il mondo intero – This is our hope. Brotherood, fratellanza è la parola chiave. We will be able to work together, to pray together, to struggle together, to go to jail together, to stand up for freedom together – lavorare insieme, pregare insieme, lottare insieme, andare in carcere insieme, sollevarsi per la libertà insieme. Insieme.
Il movimento per i diritti civili del dottor King è l’anima morale dell’America. Non ci sono rose e fiori sul cammino – l’anno dopo sarà la marcia di Selma, Alabama; nel 1968 King verrà assassinato; le rivolte dei ghetti si susseguiranno anno dopo anno. Ma si va verso la terra promessa. Insieme. Si cade e ci si rialza. Insieme.
Quale distanza dall’America di oggi – chiusa in se stessa, isolata, rancorosa, recintata.