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PARTICOLARE DI TOGA TOGHE
Dike, vita da magistrato di Caterina Crescini inizia con un viaggio oscuro, quotidiano. Spalle diverse, ma forti, che portano nel peso di zaini da città appunti che legano insieme nostalgie, certezze, indizi, prove, dubbi. La destinazione è uno dei luoghi dove si amministra la giustizia. Nei dintorni dei tribunali ci si imbatte spesso in quella statua di dea che bendata allude alle due forze alla base di tutto: equilibrio e rigore, bilancia e spada. Dalla soggezione alla diffidenza, dall'invidia al risentimento, spesso la figura magistratuale si è rivelata divisiva.
Nelle parole di docenti illustri come Antonio Briguglio e Giorgio Spangher, divisione dei poteri e dei ruoli e terzietà dei giudici fondano la società. Dike interviene appunto sulla questione ma con una drammaturgia d'ascolto sensibile e moderna. In un attimo decadi di luoghi comuni diventano neve di marzo, al sole del racconto. La narrazione è costruita per gradi, come una cantica o se vogliamo come un'ascesa o un giudizio. Solo che abilmente trova spazio un ribaltamento tra giudici e persone oggetto di giudizio. Gli indagati, le donne e gli uomini a conoscenza dei fatti, i testi escussi, nella comune umanità di chi sbaglia per migliorare, sono i magistrati stessi.
Indagati dalla macchina da presa nei loro uffici, nelle città d'origine o di adozione, insicuri o ambiziosi, votati al sacrificio, talvolta soli, donne e uomini della magistratura raccontano il passaggio cruciale del concorso, le radici familiari, i valori alla base della scommessa di diventare giudice. Il filo del racconto unisce Bari a Torino, Rovigo a Catanzaro, Roma a Napoli. Le materie attraversate sono il diritto fallimentare, il diritto del lavoro, la procedura penale. Le esecuzioni immobiliari nell'affascinante e difficile città di Bari possono essere risolte anche con il reale ascolto delle parti e la consapevolezza che dietro gli immobili a rischio e gli interessi in gioco si nascondono storie dolorose.
E seguendo la quotidianità di Chiara Cutolo in tribunale, la tenacia costruita dall'infanzia nelle campagne della Capitanata nel dialogo con la nonna, si prende un percorso di comprensione nel quale l'insondabilità di chi giudica prova ad aprirsi. La giudice, che a Bari Vecchia o nelle nuotate fatte al mattino presto ritrova la sua normalità, parla guardando negli occhi lo spettatore senza nascondere difficoltà incertezze e paure personali. Un'altra età, un'altra vita, quella di Daniela Paliaga. Presiedere la Sezione Lavoro a Torino oggi, senza aver pensato da ragazza alla carriera giudiziaria. Sposare un collega di altro reparto, buttandosi nel lavoro e interiorizzando ansie e bisogni di lavoratrici lavoratori e imprese al punto da perdersi preziosi momenti di crescita della figlia.
Dike dunque allarga storia dopo storia la vicenda lavorativa e gli aspetti di concreto funzionamento del lavoro a un controcanto privato e minimalista, dove è la piccola storia di un padre perso troppo presto a scatenare l'ambizione di Ermindo Mammucci di diventare, oggi, sostituto procuratore, rinunciando alle radici pugliesi per la bellezza sommessa di Rovigo. Le interviste ai cittadini realizzate prima che Dike iniziasse trovano gradualmente risposta, così come un quesito che resta aperto.
Neppure i magistrati sanno dire se dicere jus sia un'attitudine, un destino, una maledizione o un dono del caso. Si è magistrati studiando, inseguendo una ampiezza e una profondità di saperi che poi è solo partenza. Perché poi magistrati si diventa ogni giorno, guardando chi hai di fronte, anche ad alcuni metri sottoterra, in quell'aula bunker di Lamezia dove è GIP Chiara Esposito. Il versante ora è quello del diritto criminale ma Dike non cade nella retorica dei maxiprocessi.
La Esposito ne parla come di risposta simbolica alle mafie, ma non indugia sul vivere sotto scorta o sulla paura. È un lavoro e va amato sempre. Napoli da Lamezia è parecchio lontana. E allora in ufficio rivive trasformata nei simboli di fede calcistica e scaramanzia. La forza di essere giovani fa sopportare le solitudini del mestiere. Quando poi ci si inoltra negli anni, ci si appassiona di più alla possibilità di amministrare la giustizia e migliorarsi reciprocamente. A Roma il crotonese Vincenzo Capozza mostra aspetti poco frequentati della Presidenza di una Corte d'Assise d'appello e una terzietà quasi genitoriale, durante la chiamata dei giudici popolari, le accettazioni e le esitazioni, l'emozione, la paura nel sentire il peso del dover giudicare in camera di consiglio della vita e della libertà delle persone indiziate di reato.
Marco Puglia, al Tribunale di sorveglianza di Napoli conosce bellezza e dolore di Secondigliano. In mezzo a tante vite difficili la bellezza dell'arte e del teatro possono miracoli di rieducazione. E il giudice in maglione, gay discriminato da una comunità che oggi lo stima, è il filo di saldatura tra pena e redenzione, giudizio e ripresa. Intorno a lui i tanti detenuti che hanno scelto teatro ripetono l'Amleto al carcere di Arienzo. Dike termina cosí, raccontando che è il dubbio e il rispetto dei ruoli a rendere più autentica l'opera di giustizia. Chi giudica può sbagliare, proprio come chi è sotto processo, ma ogni giorno non perde per strada il coraggio di rimettersi lo zaino in spalla e trarne risposte difficili attese dall'umanitá che ha di fronte.