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L’Alighieri? Molto meglio Shakespeare. E poi figuriamoci se Dante ha davvero inventato l’italiano, che non sia vero lo sanno anche i bambini. Di sicuro, il Sommo Poeta era un arrogante «dotato di un immenso ego». E oltretutto, neanche sappiamo se l’angelicata Beatrice sia esistita davvero e, malandrino, la vera moglie e i suoi figli Dante non li cita mai, in nessun passaggio della Divina Commedia, una «fabbrica di versi» che serve solo a menar giudizi e condanne a destra e manca. Insomma, le celebrazioni del «Dantedì» potremmo anche risparmiarcele. A confezionare questo livido e bizzarro attacco all’Alighieri, proprio nella giornata dell’omaggio nazionale al Poeta, è la Frankfurter Rundschau, autorevole quotidiano tedesco, in un lungo articolo dal beffardo titolo «I buoni nel vasino, i cattivi nel pozzo», di Arno Widmann, già fondatore della Tageszeitung (Taz). Il quale evidentemente nutre scarsissima simpatia per il povero Dante: secondo il giornalista tedesco, la Divina Commedia è «una fabbrica di versi», nella quale «ogni volta è chiaro se fai parte dei buoni o dei cattivi», laddove l’Alighieri è mosso soprattutto «dalla voglia al giudicare e al condannare». Quanta presunzione, dice il presuntuosissimo Widmann: «Gli oltre14 mila versi sono intesi a gettare un ponte lungo oltre 1300anni sull’Eneide di Virgilio: una tale opera abbisogna di un ego immenso». Appunto. Per la verità, l’articolo è percorso da uno spirito ai limiti del satirico, di cui appare evidente l’intento provocatorio: nondimeno Widmann - che si ricorda perché nel1987 un’intervista da lui commissionata sul suo giornale finì per alimentare la tesi cospirazionista secondo la quale il virus dell’Aids venne creato artificialmente in un laboratorio militare americano - irride all’Italia che loda Dante «come uno di coloro che hanno portato l’idioma del Paese alle altezze della grande letteratura». In realtà, secondo l’autore, l’Alighieri «in un certo senso avrebbe creato la lingua per la sua opera, e questa lingua divenne quella dei suoi lettori e poi quella dell’Italia...», ma è semplicemente quello «che fino a 60 anni fa si raccontava ad ogni scolaro italiano, nessuno lo direbbe anche oggi». Come se son bastasse, le prime liriche in volgare furono scritte «in provenzale», certo non nell’italico idioma dantesco: in pratica, la maggiore invenzione di Dante, ossia di aver portato il volgare nell’alveo dell’arte letteraria, non è una vera invenzione. Pure l’aldilà dantesco «è un mondo ben strano», insiste Widmann, dove «non cresce nessun albero», praticamente «un paesaggio da uffici», se non fosse «per qualche creatura mitologica e gli angeli caduti e risaliti». Il tedesco trova da ridire anche sul rapporto con Beatrice: «Per la scoperta della vita nuziale come una delle vie alla beatitudine bisognerà attendere Martin Lutero e la Riforma». E rieccola, l’antica diatriba tra l’Italia dei Papi e la rivoluzione protestante, sia pure con uno spostamento temporale di qualche secolo. Dopodiché Widmann tira in ballo Shakespeare, che gli pare «più moderno anni luce rispetto agli sforzi di Dante di aver un’opinione su tutto, di trascinare tutto davanti alla poltrona da giudice della sua Morale. Tutta questa immensa opera serve solo per permettere al Poeta di anticipare il Giorno del Giudizio, mettere lui in pratica l’Opera di Dio e di spingere i buoni nel vasetto e i cattivi nel pozzo». Già che c’era, Widmann avrebbe potuto citare anche Kafka, il marchese De Sade ei Beatles per dire che nel lirismo sono più à la pagè del povero Alighieri. «La migliore risposta immediata è stata quella del ministro Franceschini ’Non ragioniamo di lor’ citando Dante. In ogni caso è davvero sorprendente che arrivi un attacco di questo tipo perché la Germania ha una tradizione di studi danteschi davvero prestigiosa tanto che, ancora oggi, lì viene pubblicata un’intera rivista dedicata a Dante», commenta Andrea Mazzucchi, dantista e direttore del Dipartimento degli studi umanistici alla Federico II di Napoli in merito all’articolo del giornalista Arno Widmann pubblicato dalla Frankfurter Rundschau. «Mi pare una voce abbastanza isolata all’interno del panorama culturale tedesco, dettato più dalla voglia di visibilità che da un’autentica conoscenza. Sul piano culturale sono state inoltre sostenute una serie di autentiche idiozie», ha aggiunto.