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Più che un film è un tormentone. “Il tuttofare”, pellicola che storpia con diffamante ferocia la figura dell’avvocato, è riapparso nel prime time della Rai a poco più di un mese dalla prima tv: dato su Rai Uno il 4 gennaio, è tornato su Rai Movie mercoledì scorso. Lo share notevolissimo dell’esordio (12,6%, oltre 3 milioni e 300mila spettatori) ha entusiasmato gli esperti del palinsesto.
Se ancora ci fosse qualcuno ignaro della trama, la si può riassumere come segue: un cacciatore di dote, Sergio Castellitto, sposa l’ereditiera di uno studio legale plurisecolare, Elena Sofia Ricci, si costruisce fama di penalista infallibile e nella scalata verso la gloria stritola un giovane collega, il tuttofare appunto, efficiente e solerte nello sfornare le massime della Cassazione come i caffè. Poi la situazione degenera perché l’avvocato- cannibale prima fa sposare la propria amante, incinta, con il collaboratore, poi schiera quest’ultimo nell’ufficio relazioni esterne della cosca mafiosa capeggiata da un assistito, finché lo stesso penalista sfruttatore è a propria volta travolto da un’indagine per evasione fiscale milionaria, finge il parkinson, dribbla le aspettative del collega- schiavo e si riabilita in veste di guardasigilli, mentre il tuttofare deve riconvertirsi sottocuoco in una bettola. Peggio di così la professione forense non potrebbe essere rappresentata. La vittima schiavizzata non compensa la spregevole condotta del mentore, giacché dà l’idea di essere più erudito che professionalmente sveglio. E comunque è talmente male in arnese da non emanciparsi mai come avvocato.
L’immagine del Foro ne esce davvero deturpata. Ma insomma, immaginiamo che la percentuale di italiani adulti del tutto ignari del film sia davvero residuale. Gli avvocati, nella stragrande maggioranza dei casi, reagirono con superiore indifferenza già all’arrivo nelle sale, esattamente due anni fa. Però la traccia culturale lasciata dal film resta e merita di essere compresa al di là del danno arrecato all’avvocatura.
C’è un aspetto che avvicina “Il tuttofare” alla retorica anticasta, al mantra del “tutti ladri tutti a casa”: il disgusto per le classi dirigenti. Che si tratti di classe politica o di ceto professionale. Resta il discredito, che è come uno specchio in cui si sono compiaciuti i milioni di spettatori che hanno visto o rivisto “Il tuttofare” di recente. Alcune sere fa Castellitto, in un’intervista retrospettiva sul suo esuberante personaggio, ha annoverato il film nella tradizione della commedia all’italiana. Quella scuola, ha detto, è consistita nel prendere dei caratteri dalla realtà, dei caratteri ricorrenti, e deformarli. Quanto a deformare, il film lo fa in pieno; che poi quel tipo di avvocato sia effettivamente un campione preso in prestito da una qualche realtà, è cosa francamente lunare. Ma non è questo il punto. Se pur si vuol concedere a Castellitto il beneficio dell’approssimazione, se pure si può ammettere che il grado di distorsione, come la chiama lui, può anche essere così alto da rendere irriconoscibile il carattere originario (nel nostro caso l’avvocato), comunque resta un gigantesco problema, rispetto alla commedia all’italiana tradizionalmente intesa. Il filone che ha segnato la storia del cinema dal dopoguerra in poi, nelle sue età dell’oro come nella decadenza, sceglieva un’angolatura del mondo, ne metteva in scena la farsa, dopodiché verso quel mondo, nel piano reale, permaneva un rispetto, una considerazione. Si è sempre scherzato su politici, professori universitari, avvocati, giornalisti, travet: si pensi al campionario meraviglioso di “I complessi”. Però col dileggio c’era anche la convinzione diffusa, nell’opinione pubblica, che di persone perbene e oneste, in quelle categorie, ce ne fossero. La disillusione, la totale sfiducia verso qualsiasi dimensione che possa essere assimilata all’idea di classe dirigente, o anche solo di classe, non era ancora arrivata. Se adesso invece non si salva nessuno, se lo spettatore medio è ormai convinto che tutto in Italia è inaffidabile, che tutti sono squalificati e impresentabili, chi è rimasto a dar voce a ogni singolo cittadino? Chi ha titolo per parlare a nome di tutti? Chi può riscuotere consenso se non a condizione di gridare all’impresentabilità e alla disonestà generali?
Il meccanismo dell’anticasta è esattamente questo: la perdita del principio di rappresentanza. Si dirà: il Parlamento esiste ancora e i partiti continuano a prendere voti. Sì, ma è per una sorta di forza d’inerzia. C’è un piano irrazionale ed emotivo in cui la sfiducia predomina, poi esiste un residuo di realismo e ragionevolezza, che spinge bene o male le persone alle urne, ad affidarsi sinceramente a un avvocato, a chiedere la tesi a un professore universitario senza fulminarlo con lo sguardo obliquo che si riserva agli impostori. Il punto è che nel linguaggio pubblico, nel cosiddetto dibattito, in tv e sui social, prevale il piano emotivo.
Il che implica un’ulteriore conseguenza: l’Italia è ormai un Paese afasico. Nessuno parla a nome della collettività. Se non per dire che la classe dirigente fa schifo. Che tutto, fa schifo. Film come “Il tuttofare” alimentano il processo. Il risultato? L’afasia e basta. Nessuno parla, nessuno è credibile. È vera solo l’ignominia, la disonestà. Nella percezione emotiva, diventa vero, appare cioè reale, solo l’avvocato lestofante di Castellitto. Non l’avvocato reale che si spezza la schiena ogni giorno per assicurare una decente tutela dei diritti ai propri assistiti.
Uscirne è, in apparenza, impossibile. Se nessuno è credibile, se non a condizione che sia disposto a diffamare il mondo, non c’è speranza. L’anticasta ha compiuto il delitto perfetto. Tra le poche chance che vengono in mente ce n’è una tipica della psicologia sociale. In fondo il processo di autodiffamazione collettiva risponde a nient’altro che a una collettiva perdita di autostima. È passato bene o male il messaggio secondo cui l’Italia sarebbe un Paese di parassiti, evasori fiscali, farabutti e buonianulla. La lunga stagione della crisi, e dell’austerity e dalla troppo flebile ripresa, ora soffocata nella tragedia del covid, ha convinto i più che l’Italia sia il peggio e che si meriti il peggio. Forse, se si vuol restituire dignità alla classe dirigente, e rivedere in tv o nelle piazze qualcuno a cui si conceda il diritto di parlare per tutti, non è che vada glorificata e magnificata la classe dirigente: si deve solo parlare bene degli italiani. Dire che l’Italia è uno straordinario Paese. Che ha sopportato con dignità anni di povertà, privazioni, perdita di status, desertificazione produttiva, pressione fiscale mostruosa. Eppure è un Paese meraviglioso, come lo definì Sandro Pertini. Qualcuno, al cinema o in qualunque altro posto e con qualsiasi altro mezzo, dovrebbe dire agli italiani che sono meravigliosi. E allora forse la si smetterà di storpiarsi in uno specchio così deformante.