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Bataclan
Da oltre un mese lo scrittore francese Emmanuel Carrère si sveglia all’alba, impugna un taccuino da cronista e si affretta a prendere il metrò per raggiungere il tribunale dove è in corso il processo per le stragi jihadiste del 13 novembre 2015: le sventagliate di kalashinikov sulle terraces della Bastiglia, il massacro del Bataclan, la mancata carneficina allo Stade de France, una delle giornate più sanguinose nella storia del dopoguerra transalpino. E una ferita ancora sanguinante nel cuore del Paese.
I media lo hanno definito il “processo del secolo”, la “Norimberga del terrorismo” ma è un paragone che non sta in piedi: a Norimberga sfilavano i gerarchi del Terzo Reich, mentre qui è alla sbarra un povero fanatico 32enne che sembra ostaggio di una Storia più grande di lui; dalla banalità del male alla miseria del male. Sarà anche un processo lunghissimo, almeno nove mesi di udienze per cinque giorni alla settimana.
Tutti i riflettori sono dunque puntati su Salah Abdeslam (e altri 13 presunti complici), l’unico sopravvissuto del commando che, quella notte di sei anni fa, scatenò l’inferno nelle vie di Parigi. Ha parlato solo il primo giorno Abdeslam, per ribadire che non aveva nulla da dire, ha confermato la sua identità ma ha detto di non riconoscere la giustizia francese e di essere un guerriero dell’Islam: «Allah è l’unico che mi può giudicare». Una cosa molto concreto però l’ha detta, denunciando il trattamento ricevuto in prigione: «Ci trattano come dei cani». E probabilmente su questo ha ragione.
Carrere, che tiene un diario periodico delle udienze sul Nouvel Observateur , confessa di essere attratto dai meccanismi mentali che portano un individuo a perdere il senso dell’umanità, divorato dall’odio religioso: «Anche se non sono un esperto, mi interesso da tempo alle religioni, alle loro mutazioni patologiche, e mi chiedo: dove inizia la patologia? Quando si tratta di Dio dove comincia la follia? Assistere al processo è un modo per scrutare questo fenomeno».
Durante le prime settimane, nella grigia aula bunker allestita alla periferia di Parigi, scorrono i raggelanti racconti dei superstiti, ogni testimonianza apre uno squarcio sull’orrore, un’orrore dilagante, generale, ma fatto anche di piccoli dettagli, di percezioni sfasate del tempo, nell’interminabile presa d’ostaggi del Bataclan, tra i feriti agonizzanti, i ragazzi e le ragazze che si nascondevano sotto le pile di cadaveri fingendosi morti, i momenti di speranza e quelli disperati. «Non so ancora cosa mi ha spinto a infliggermi una simile prova. Resteremo chiusi in quest’aula per quasi un anno, sentiremo e proveremo un’esperienza estrema, le parole di persone restate in bilico tra la vita e la morte e che hanno visto l’orrore, sarà una lunga traversata», spiega ancora Carrere.
Quando la penna di uno scrittore incontra i grandi processi penali avviene sempre una distorsione dei piani di racconto e di ascolto, lo scopo della letteratura eccede e non coincide mai con quello del processo. Non si tratta di ricostruire i fatti (anche se non è escluso che possa accadere) o di stabilire una plausibile verità giuridica, ma raccontare un punto di vista, magari allargato, che spesso chiama in causa sentimenti universali attraverso storie particolari, che prova a entrare nella carne viva delle persone, oltre la pedissequa prosa della burocrazia, gli elenchi dei faldoni, le cantilenose.
Un punto di vista soggettivo e irriducibile, a volte faziosamente schierato come nell’Apologia di Socrate, scritta dal discepolo Platone che mette in scena la spassionata difesa del filosofo di fronte allo zelo accusatorio di Antino, Meleto e Licone, in un processo che porterà all’ingiusta condanna morte di Socrate per empietà e corruzione della gioventù. Ma anche un’opera politicamente schierata, che attacca i sofisti e la democrazia da parte di Platone seguace dell’oligarchia.
Lo stesso processo a Gesù di Nazaret viene raccontato dai quattro Vangeli principali, una testimonianza tra storia e leggenda da parte dei discepoli di Gesù che, nei limiti della verosimiglianza, illumina uno dei primi grandi errori giudiziari della nostra civiltà, le accuse pretestuose e la condanna del Sinedrio, la promessa tradita di una pena mite da parte del romano Ponzio Pilato che vigliaccamente lo manderà crocifisso per seguire la vox populi che voleva Barabba libero.
Processi che si perdono nella notte dei tempi. ricostruiti tramite testimonianze di seconda mano a tanti anni di distanza dai fatti. Ma era l’antichità e le informazioni non correvano veloci come oggi. Molto più simile a quello di Carrere il lavoro dello scrittore americano Truman Capote nel celebre A Sangue Freddo, che racconta il brutale omicidio alla fine degli anni 50 di una famiglia di proprietari terrieri del Kansas da parte di due balordi, poi catturati, processati e mandati al patibolo. Un romanzo che sconvolse l’America per la crudezza del racconto e per l’intraprendenza di Capote che volle conoscere gli assassini personalmente, capace di guardare il male dritto negli occhi senza ipocrisie e ricami letterari. Il fatto di cronaca che diventa allora una metafora della violenza che lievita nella società americana. La sparatoria infinita che segna la cronaca nera d’oltreoceano da oltre mezzo secolo dimostra che Capote aveva capito i mali dell’America prima di tutti.
All’inverso, la Banalità del Male di Hannah Arendt si immerge nella “grande Storia”, l’Olocausto del popolo ebraico, raccontando il processo al contabile dello sterminio Adolf Eichman, catturato dal Mossad in Argentina quando ormai pensava di averla fatta franca e portato alla sbarra a Tel Aviv. Un processo tra i più importanti del ventesimo secolo per attenzione e carica simbolica.
E un’opera, quella di Arendt, sospesa tra il report giornalistico e il saggio filosofico in cui il “male” nel suo significato storico e generale, si annida nei dettagli, si incarna nella normalità di un individuo grigio, anonimo, per l’appunto “banale”, che vidimava carte per mandare a morire dei bambini nei campi di sterminio con la stessa mitezza con cui avrebbe timbrato un pacco postale.
Sull’altro fronte Il caso Kravchenko di Nina Berberova, ci racconta il processo per diffamazione intentato dall’ex ingegnere sovietico dissidente contro il settimanale comunista Les Lettres françaises.
Kravchenko aveva denunciato i gulag staliniani e ottenuto asilo dagli Usa, venendo definito «un bugiardo e una spia» da parte di decine di intellettuali francesi, su tutti Roger Garaudy, filosofo marxista poi sprofondato negli anni in una cupa deriva antisemita. La penna di Beberova ci porta nelle conventicole del confromismo ideologico di moti intellettuali comunisti incapaci di ammettere che il loro sogno politico si era trasformato in un incubo.