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In qualsiasi stadio europeo metta piede, mi accade di sentirmi estraneo allo spettacolo che si sviluppa sul campo. Non riconosco più i calciatori come protagonisti delle squadre nelle quali militano. La stragrande maggioranza di loro non ha niente a che fare con le nazioni che li ospitano; i club che li pagano profumatamente non sono nemmeno sfiorati dal dubbio che l’appartenenza nazionale sia il fondamento della costruzione comunitaria calcistica, i cui elementi prevalenti sono i giocatori, i tifosi e la società. Pertanto, la vittoria o la sconfitta è percepita semplicemente come una sorta di agonismo senz’anima, sostenuto dagli spiriti elementari della contrapposizione passionale ma agnostica. Certo, il calcio nasce come sublimazione sportiva di un patriottismo innocuo, che non scade nella follia dell’odio tra contrapposte fazioni, ed è sempre stato comunque mitigato dall’innesto in ogni compagine di alcuni elementi extra- nazionali che spesso cambiavano nazionalità, diventando “oriundi”. Oggi è impossibile, in Italia come altrove, vedere formazioni composte soltanto da calciatori appartenenti alla stessa nazione; accade anzi, al contrario, che su undici non più di due o tre ( ma spesso nessuno) lo siano. In Italia il fenomeno è più pronunciato che altrove, e lo scadimento della nazionale azzurra ne è la diretta conseguenza. Se i migliori – o alcuni di essi – giocatori stranieri militano nel campionato italiano, è fatale che impediscano a chi italiano lo è di nascita di poter emergere. Togliendo il posto agli autoctoni, i campioni importati impoveriranno anche le rappresentative nazionali.
Il fenomeno migratorio dei calciatori è tra i più preoccupanti. A suon di milioni di dollari ed euro le nazioni perdono i loro campioni, mentre club, giocatori e procuratori si arricchiscono. È l’effetto collaterale più macroscopico della globalizzazione del calcio. Quattro anni fa, la disfatta delle squadre sudamericane in Brasile si spiegò così. È l’avvilente condizione che si vive in alcune nazioni europee – in Italia in primo luogo – dove i vivai non esistono quasi più, mentre si fa spazio a presunti campioni, pagati poco ( tranne alcuni, ovviamente) o acquistati attraverso scombinate operazioni di mercato ( prestiti onerosi, svincolati, a cui offrire uno stipendio) che bloccano la crescita di giovani talenti. È fin troppo evidente che un tale stato di cose non garantisce a chi è chiamato a selezionare i “nazionali” di poter avere a disposizione non più di trenta elementi per costruire una squadra con qualche ambizione.
Dalla massiccia migrazione calcistica deriva l’irresistibile omologazione nel modo di concepire il gioco: quasi tutti i protagonisti giocano più o meno alla stessa maniera, gli schemi adottati sono prevedibili e ripetitivi. La bellezza della differenza che un tempo, per esemplificare, faceva di quello brasiliano il più spettacolare calcio del mondo, si è dileguata. Il contrasto tra avversari, esaltato dai dribbling funambolici o dalle giocate geniali, è retaggio di un passato ormai lontano. Quando a qualcuno riesce di saltare l’uomo, il cronista di turno grida quasi al miracolo. La Germania, che pure aveva capito prima di altre compagini come adeguandosi ai modelli globalisti sarebbe giunta la fine, vi pose rimedio una quindicina d’anni fa, ma non aveva previsto che il massiccio inserimento di elementi stranieri nelle squadre di club avrebbe finito per sortire lo stesso effetto. La “macchina tedesca” ha girato a pieno regime per pochi anni, per poi capitolare. Finché erano pochi gli stranieri nella Bundesliga, il meccanismo funzionava; poi si inceppò: il sistema d’importazione globalista ebbe la meglio.
La “rivoluzione conservatrice” tedesca – calcistica, s’intende – era iniziata dopo le molte disfatte seguite alla vittoria del Mondiale italiano nel 1990, quando cominciò l’esaurimento della potenza germanica sui campi di calcio, e si concretò a partire dal 2006 con l’avvento di Jürgen Klinsmann, già fuoriclasse dell’Inter dal 1989 al 1992, e Joachim Löw alla guida della nazionale. L’esaurimento è stato inevitabile dopo la conquista del Mondiale del 2014. In Europa non c’è nessuna nazionale che brilli come un tempo. Un mediocre calcio figlio di club – i cui proprietari, tra i maggiori, non sono neppure europei – dove militano giocatori di tutto il mondo mina il principio nazionale che dovrebbe essere alla base del movimento calcistico.
Il tempo eroico del football è dunque definitivamente alle nostre spalle? Sembra proprio così. Non ci rimane che contemplarlo. (...) Chi avrebbe mai immaginato, solo trent’anni fa, che il calcio sarebbe diventato la tomba della fantasia? Chi avesse avanzato l’ipotesi di una simile catastrofe antropologica sarebbe stato ritenuto folle. Ma, nei fatti, lo sviluppo del movimento calcistico ha portato alla desertificazione dell’inventiva, il mercatismo ha avvolto come una gigantesca piovra il mondo del football. Nei suoi tentacoli sono finiti i sogni dei ragazzini che vorrebbero diventare Messi o Ronaldo, come una volta Maradona o Platini e prima ancora Rivera o Mazzola, Garrincha o Pelé, Piola o Meazza. O come la giovanissima anglo- indiana, Parminder Nagra, protagonista di Sognando Beckham ( Bend It Like Beckham), film- culto del 2002 diretto da Gurinder Chadha e interpretato, tra gli altri, da Keira Knightley e Jonathan Rhys Meyers: fu il primo film occidentale trasmesso dalla televisione nordcoreana.
Tutto è profitto, gli spazi dell’irreale si sono ristretti. Al bazar dello sport non c’è una sola bancarella su cui storie esemplari, esercizi di ammirazione, entusiasmo gratuito e passioni innocenti vengano esposte come una volta. Quando, per esempio, correndo dietro ad un pallone, in strada, nei parchi o negli oratori, si poteva immaginare di diventare, se non proprio campioni, almeno onesti calciatori. E la fantasia accompagnava progetti di gloria, piccoli o grandi, che crescevano fino a quando la palla rotolava negli improvvisati spazi nei quali ci si alimentava di leggende che, domenica dopo domenica, prendevano forma sui campi di calcio veri.(...) Adesso le scuole di calcio impongono imperiosamente – a genitori perlopiù abbacinati dal mito di un successo a portata di mano per i propri figli – regole e comportamenti che il mondo dei bambini non capisce e mal sopporta. Si fa credere, dall’alto di un business inimmaginabile fino a pochi anni fa, che basta frequentare una di queste scuole, che spuntano come funghi soprattutto nelle grandi città, per avere concrete possibilità di affermazione, all’esoso prezzo della sottrazione della felicità a adolescenti che vorrebbero guadagnarsi il loro effimero, ma quanto radioso, momento di gloria, come accadeva prima che il calcio diventasse un’industria, divertendosi, dispiegando il loro naturale entusiasmo. Costret- ti, come fossero adulti in miniatura, a studiare schemi e tattiche, li si fa rinunciare alla gioia di rincorrere un pallone da mettere in rete perché prigionieri di regole che non formano, ma intristiscono. Osservateli nelle patetiche competizioni a cui danno vita: non hanno la gioia dipinta sui volti, lanciano sguardi preoccupati a manipolatori di coscienze, ma anche di membra in formazione, cercando approvazione o schivando plateali disapprovazioni che finiscono per condizionarli. Macchinette inceppate avvolte in improbabili divise copiate dai grandi club… Non sembra che da quando le scuole di calcio spopolano siano venuti fuori campioni come quelli ricordati. Se avremo nuovi Maradona o “replicanti” di Falcao e Platini, quasi certamente non usciranno da lì. (...) In vista delle qualificazioni mondiali, i club, nelle mani di affaristi apolidi, continueranno a concedere ( quando non a negare) di malavoglia i loro giocatori alle nazionali. Temono infortuni, disagi, perdite di tempo. Una volta erano orgogliosi di avere i propri gioielli tra i convocati delle rappresentative dei vari Paesi. Oggi è una scocciatura che può mettere a repentaglio il fatturato. Tuttavia, non si possono sottrarre. E, sia pure con un groppo alla gola e qualche apprensione, sono costretti a fare buon viso a cattivo gioco: partita dopo partita, la tribù globale del calcio internazionale si ritrova così in un qualche angolo del mondo dove celebra i propri fasti in uno scenario planetario condizionato da grandi affari economici e finanziari. La passione dei poveri mortali alimenterà uno dei più ricchi business della storia.
Il Mondiale di calcio, tuttavia, è un fenomeno contagioso. Un grande spettacolo. Indipendentemente dalla qualità: l’attuale presidente della Fifa vorrebbe allargare la platea dei partecipanti a quarantotto squadre. Una storia infinita e di scarsissimo livello agonistico, tranne che per una decina di partecipanti. Si fa illudere che ci sia gloria per tutti, ma la gloria frutta denaro, e perfino chi è consapevole di arrivare ultimo si adatta al ruolo in cambio di milioni di dollari.
Dal 1930, in ogni continente, nonostante il mercatismo trionfante, o forse proprio grazie ad esso, continua a crescere il numero degli adepti che s’identificano con il football alla stregua di una religione profana. Una religione dai costi altissimi e dalle rese economiche ancora più alte. Un affare incalcolabile fondato sul primordiale istinto dell’antagonismo che diviene, in alcuni deprecabili casi, feroce, incontrollabile e assoluto. Come in tutte le tribù, il “nemico” è sempre da abbattere: nel calcio vige la stessa regola, e i riti che esso propone sono vere e proprie cerimonie belliche spinte da pulsioni che si potrebbero definire “politiche”, officiate da quei “militi” bonari e appassionati, barocchi e un po’ cialtroni, quando non delinquenti veri e propri, che sono i tifosi. Organizzati più o meno per bande, riproducono sul piano sportivo la logica del clan, della fazione, del gruppo organizzato secondo regole ferree che rimandano a schemi e modelli politici di tipo tradizionale; negli stadi celebrano i loro trionfi “patriottici” (...) Al di là dei sociologismi necessari per capire un fenomeno planetario, credo che il calcio sia essenzialmente un’estetica dell’anima, forse la più riuscita in tempi moderni, capace di mettere assieme sensibilità profonde che non hanno confini: da qui la sua intrinseca “politicità”.
Uno dei più acuti e brillanti studiosi del fenomeno calcistico contemporaneo, Giancristiano Desiderio, che al football ha dedicato riflessioni filosofiche straordinariamente originali, in uno dei suoi libri sull’argomento, Il divino pallone ( Vallecchi, 2010), ha opportunamente scritto: «Il calcio, come la filosofia, è materia delicata e infiammabile. Va maneggiato con cura. Praticato in un regime di libertà, è quello che tutti considerano semplicemente un gioco, un passatempo, una distrazione. Praticato in un regime di illibertà rivela tutta la sua carica umana. Praticato in un regime totalitario diventa a tutti gli effetti un gioco pericoloso. Per i dittatori che se ne vogliono impadronire, la palla è la manifestazione del gioco e il gioco è, per definizione, senza controllo, perché nessuno lo può possedere senza vederselo annullare nelle sue tracotanti mani. La palla deve essere giocata. Su un campo di calcio, lo si voglia o no, c’è in gioco la vita. Il calcio è implicitamente una critica del potere perché il gioco non ha padroni e nasce solo là dove c’è pluralità ed esperienza dei singoli giocatori. Solo chi è affetto da un delirio di onnipotenza può credere di controllare il gioco». Se la “politicità” del calcio è incontestabile, è pur vero che esso sfugge a chi se ne vuole appropriare per farne uno strumento propagandistico: accadde nel 1978 in Argentina, la cui nazionale vinse il Mundial, ma nessuno pensò di glorificare il generale Jorge Videla per questo. Il calcio, depurato da tutte le incrostazioni mercantili e dall’utilizzo che il potere è tentato di farne, è semplicemente una delle manifestazioni moderne della cultura dei popoli, soprattutto di quelli che sono alla ricerca di un protagonismo mai avuto: guardo alcuni disegni giovanili del grande scrittore Henry de Montherlant, leggo le vecchie poesie di Umberto Saba e quelle nuove dello straordinario poeta del calcio Fernando Acitelli, mi soffermo sulle pagine di Osvaldo Soriano e ripenso a miti che non ritornano, da Garrincha a Maradona, passando per Pelé e Sivori, incantatore di serpenti e di portieri. Poi, mi do pace davanti all’incanto di un divino soffio di forza e bellezza evocatomi dal discobolo di Mirone, il quale eleva a eroe l’atleta, uomo potente orgogliosamente consapevole di avere un’anima.
No, il calcio non è soltanto uno sport. E non è una questione tra le altre, che si esaurisce nei bar.