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Il neo direttore di Raidue, in quota Cinque Stelle, è famoso in Italia perché da situazionista è stato protagonista, negli anni 80, della reinvenzione della televisione. Ma oggi più che situazionista, Carlo Freccero si definisce sovranista, patriottico, italianissimo. Due dei principali programmi della nuova Raidue si chiamano infatti “Povera patria” e “Popolo sovrano”. Due concetti, quello di patria e quello di popolo sovrano, che sono il core business del populismo: sono cioè il nocciolo duro di quel movimento politico che per opporsi alla globalizzazione ha pensato con successo, a poco più di 70 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, di rivitalizzare l’idea dei confini nazionali come invalicabili dallo “straniero”.
Il situazionismo era ( ed è) l’opposto. Era di per sé “internazionale”, aperto, marxista e anarchico. L’unica patria che si poteva immaginare era quella del mondo intero. Il situazionismo, movimento che nasce dalle avanguardie novecentesche, è la rottura degli schemi, dei confini reali e concettuali, è il divenire verso forme sempre nuove e diverse della società ma anche dell’individuo. Non c’è espressamente un riferimento al suo essere anti nazionalista, forse anche perché con la guerra alle spalle si pensava di aver chiuso con quella concezione, ma nei fatti artisti, intellettuali, studenti che si muovono a ridosso della prima e della seconda Internazionale situazionista viaggiano in un’orbita anti sistema: sono provocatori, amano i capovolgimenti di senso, le rotture semantiche, puntano a costruire un nuovo immaginario.
Per servirci del concetto di un filosofo francese, che con loro non c’entra ma un po’ sì, Gilles Deleuze, sono “rizomatici”, hanno cioè un modo di muoversi più simile a una radice con tante filiazioni che a un unico tronco. Sono una rete di relazioni, un divenire di pensieri e proposte, impossibile da far coincidere con una idea di sovranità, di patria, di “italianità” come identità pura, incontaminata.
LE ORIGINI
Il situazionismo nasce da una costola di un altro movimento poco conosciuto in Itala, il lettrismo. Siamo in Francia nel 1946 e il poeta e regista Isidore Isou dà vita a una realtà artistica e culturale che parte dalle lettere, cioè dai segni per decostruire il sistema che fino a quel momento aveva dominato. L’accento è cioè messo sulla comunicazione, sul linguaggio, sulla rappresentazione. L’intento non era solo quello di rinnovare ma di puntare l’attenzione sulla comunicazione di massa. Insieme a Isou, c’erano Gabriel Pomerand, Maurice Lemaitre, Jean Louis Brau. Nel 1952 da una scissione con i fondatori nasce la prima Internazionale lettrista di cui fa parte anche lui, Guy Debord, colui che rileggendo Marx ha indicato un filone di analisi che non si è ancora estinto. Dal lettrismo si passa così al situazionismo. La prima Internazionale situazionista si scioglie nel 1972, la Seconda vede sempre protagonista Debord che resta comunque un pensatore solitario, un ispiratore del movimento studentesco, che osserva con partecipazione e senso critico. Debord nel 1967 scrive infatti un testo chiave dell’analisi e delle contestazioni di quegli anni, La società dello spettacolo. Un libro culto, una sorta di bibbia sul mondo della comunicazione di massa. Un libro che andrebbe letto e riletto, ma che invece è finito in un cassetto pieno di polvere. Dimenticato. Eppure tra quelle righe, ci sono intuizioni fulminanti anche e soprattutto sul presente. Non un generico presente, ma la nostra condizione qui e ora.
LO SPETTACOLO INTEGRALE
Debord nasce a Parigi il 28 dicembre 1931. Morto il padre, si trasferisce qualche anno a Cannes, ma all’età di 18 anni fa ritorno nella sua amata Parigi e partecipa ai movimenti artistici e culturali dell’epoca. Debord è marxista, ma supera Marx. O meglio lo rilegge, lo attualizza, per arrivare a una conclusione: oggi la contraddizione tra capitale e lavoro è insita nella comunicazione. Nel 1967 scrive La società dello spettacolo, a cui nel 1988 aggiunge i Commentari. L’attacco del libro è fulminate, parafrasa Marx: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di spettacoli. Tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione» . Le immagini non sono intese come un fattore esterno alle dinamiche sociali o politiche o individuali. Sono qualcosa di più profondo, insito nello stare insieme. «Lo spettacolo - scrive l’intellettuale francese - non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra individui, mediato dalle immagini». Poco più in là chiarisce: «Non si può opporre astrattamente lo spettacolo e l’attività sociale effettiva; questo sdoppiamento è esso stesso sdoppiato. Lo spettacolo che inverte il reale è effettivamente prodotto. Nello stesso tempo la realtà vissuta è materialmente invasa dalla contemplazione dello spettacolo, e riproduce in se stessa l’ordine spettacolare portandogli un’adesione positiva». Qui il passaggio chiave, da memorizzare contro ogni tentazione di contrapporre realtà e immaginario: «La realtà - sottolinea Debord - sorge nello spettacolo, e lo spettacolo è reale. Questa alienazione reciproca è l’essenza e il sostegno della società esistente». «Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine».
Nei Commentari la sua analisi, suffragata da quello che sta accadendo, diventa ancora più netta e teorizza il concetto di “spettacolo integrale”, uno spettacolo che tutto ingloba. Scrive: «Il governo dello spettacolo, che attualmente detiene tutti i mezzi per falsificare l’insieme della produzione nonché della percezione, è padrone assoluto dei ricordi e padrone incontrollato dei progetti che plasmano l’avvenire più lontano». E in questo contesto, che ci può essere un «tripudio carnevalesco», «una fine parodistica della divisione del lavoro» : «Un finanziere canta, un avvocato diventa informatore della polizia, un fornaio espone le sue preferenze letterarie, un attore governa, un cuoco disserta sui tempi di cottura come momenti essenziali della storia universale». Debord diventa sempre più drastico, provocatore, lucido profeta: «La massima ambizione dello spettacolare integrato è pur sempre che gli agenti segreti diventino rivoluzionari e che i rivoluzionari diventino agenti segreti».
Nel 1994 si suicida.
PERIFERIE
Oggi, soprattutto nei me culpa della sinistra, si contrappongono realtà e finzione. L’accusa che principalmente viene mossa al Pd è quella di aver dimenticato le periferie, di essere andati troppo e male in tv e di non aver più un rapporto con le persone in carne e ossa, come se quelle persone in carne e ossa non fossero dentro quel sistema di immagini e di rappresentazioni descritte da Debord. Questa convinzione, a leggere l’intellettuale francese, è quanto di più errato ci possa essere. E’ cadere in una trappola che lo stesso spettacolare integrato crea per disarcionare il suo nemico, un suo potenziale avversario che viene così, non solo sussunto, ma annientato. Le periferie esistono, come esistono i bisogni materiali delle persone. Nessuno lo nega. Ma la vera questione è come questi bisogni diventino immagini, rappresentazione.
E’ in questo passaggio così delicato che il populismo vince, costruendo un immaginario forte, un rappresentazione sociale più o meno condivisibile - ma capace di dare un senso alla realtà, quella realtà che a sua volta dà un senso all’immaginario. Debord, soprattutto nei Commentari, spiega che «la società modernizzata fino allo stadio dello spettacolare integrato è contraddistinta dall’effetto combinato di cinque caratteristiche principali: il continuo rinnovamento tecnologico; la fusione economico- statale; il segreto generalizzato; il falso indiscutibile; un eterno presente». La messa al bando della Storia vuol anche dire la fine della logica. Oggi potremmo dire è anche la ricerca sempre e comunque di un linguaggio empatico, che faccia presa non sul ragionamento, sul rapporto causa- effetto ( da una cosa ne scaturisce un’altra…) ma sui sentimenti, sulla cosiddetta pancia.
Realtà, finzione, corpo, immaginario: le cose si complicano. E secondo Debord tutto si può fare fuorché semplificare e creare contrapposizioni che non esistono. Per questo oggi appare assurdo che dopo un secolo di società dello spettacolo, si continui a ignorare la trasformazione avvenuta nella costruzione e nella percezione del reale. Siamo dentro un meccanismo che può stritolare, un meccanismo come direbbe Marx alienante, a cui finora è stata data una risposta identitaria fondata sulla nazione, sui confini, sui rapporti di “sangue”, sul bisogno non di giustizia ma di giustizialismo. Ma tutto questo, caro Freccero, Debord lo contrastava.