PHOTO
Nella notte tra 1 e 2 giugno 1970, mezzo secolo fa, l’Italia perde il suo grande poeta, Giuseppe Ungaretti. Quattro anni prima, nel ’66 è a San Paolo del Brasile per visitare la tomba del figlio Antonietto. In questo viaggio incontra l’amore: una giovane donna e poetessa, Bruna Bianco, piemontese, emigrata con la famiglia dieci anni prima. Bruna, poi divenuta un’importante avvocata, cambia la vita di Ungaretti ed è da lui cambiata grazie all’intensità di un amore che tutt’ora la accompagna. Il loro sentimento ha dato vita a uno scambio epistolare intensissimo raccolto nel volume Lettere a Bruna pubblicato da Oscar Mondadori nel 2017, curato da Silvio Ramat.
«Ho avuto una fortuna inimmaginabile, che tutte le donne dovrebbero avere almeno una volta nella vita», confessa al Dubbio. E nel raccontarci il suo straordinario incontro con Ungaretti, ci parla anche delle traduzioni realizzate dal poeta, proprio ora che tornano in libreria le sue Visioni di William Blake, curate da Mario Diacono.
Com’è andata quel giorno di agosto ’ 66 con Ungaretti, il suo Ungà?
È stato quel rapimento di cui parla anche Leopardi. È accaduto allo stesso tempo e a tutti e due. Siamo rimasti folgorati.
Quando poi Ungà è partito, nel distacco, nella distanza, avevamo bisogno di ricevere ogni giorno delle lettere, che erano come la nostra droga, capaci di scomporre tutto l’essere. È degno di studio un caso simile. Quando lo conobbi era curvo, poi buttò via i bastoni, camminava dritto come un fuso. Io non mi sono mai accorta di quanti anni avesse, era l’uomo che volevo per me.
Una corrispondenza di tre anni, con molte riflessioni anche sulla poesia. Le ha scritto che le cose più poetiche sono quelle “sussurrate”. Che cosa ha imparato?
Lui insisteva sul fatto che la poesia fosse destinata a rimanere, in tutte le sue forme, parola semplice, oltre che un atto di armonia, di adesione della persona a ciò che la circondava. Mi insegnava principalmente a distruggere la gabbia dell’eccesso di retorica, dell’enfasi, che rovina la poesia, ne falsa il giudizio.
Che cosa le diceva?
Lui me le faceva rivedere, levigare. Mi diceva che la poesia, in un tempo in cui ci sono tanti, troppi privilegi, non deve essere solo per alcuni. Tutti gli uomini devono essere ammessi alla poesia. Secondo lui, grazie all’arte, alla scienza, alla cultura, la società deve conseguire un assetto più umano. Nessuno è più amareggiato dell’artista, se la sua parola rimane indecifrabile a tanta parte degli uomini.
Nelle lettere spesso Ungaretti le si rivolgeva come un maestro. Le dava fastidio questo?
Io lo adoravo. Assorbivo tutto quello che mi diceva, come una droga da bere per vivere quella felicità che solo lui mi aveva permesso di provare, perché è stato l’uomo completo, che mi ha fatto sentire amata. Come potevo non essere grata? Mi raccontava solo la meraviglia. Per esempio, non mi parlò mai della trincea, del fango, di guerre, ma solo di cose melodiose, di gioia di vivere. È stato veramente un incontro soprannaturale. Avevamo bisogno di starci vicino e di avere sempre l’insistenza e la presenza dell’amore reciproco. Volevamo sposarci e abbiamo preparato tutto per farlo il giorno del mio compleanno.
Poi le cose non andarono così…
Ungaretti subì molte ingiustizie a quell’epoca, ingiustizie gravissime. Non era ricco, non aveva una casa di proprietà in cui vivere con me. Lui sperava nel Nobel, perché con una parte avrebbe comprato una casetta a Capri, dove ci saremmo trasferiti per fare le traduzioni, infatti a lui piaceva tradurre con me i grandi classici. Il Nobel non venne… e fu una vergogna.
Lei ha conservato tutte le cartoline, i cataloghi e gli altri doni che Ungà le inviava?
Tutto. Quando ho deciso di venire ad abitare in Italia, perché il Brasile viveva un momento politico di molte incertezze, ho caricato un container su una nave e ho portato tutti i libri che mi ha dato Ungaretti, le stampe, le medaglie, la penna, il tagliacarte, i bastoni, i foulard che mi regalò e che io non ho usato più dopo la sua morte, i vestiti. Ho comprato una casa a Canelli, in Piemonte, l’ho ristrutturata e vi ho trasferito tutti i suoi libri. Per l’anniversario dei cinquant’anni dalla sua morte avevo preparato una teca dove mettere questi libri meravigliosi per permettere, a chi volesse, di osservarli o studiarli. Con il coronavirus tutto è rimandato.
In questi giorni esce una nuova edizione delle traduzioni che Ungà fece di Blake. Voi ne parlavate nell’epistolario. Cosa caratterizzava il lavoro di traduzione di Ungaretti?
Aveva una sensibilità tale da riuscire a vivere il momento del poeta che aveva scritto le poesie. Andava a vedere i luoghi, perché non si può tradurre un componimento parola per parola, non si arriva mai alla verità dell’emozione. Bisogna conoscere anche dove si compie l’avvenimento. Lui leggeva i testi e poi li riproduceva nel suo pensiero, senza perdere il movimento, l’ambiente in cui erano stati composti gli originali. Aveva questa capacità formidabile.
Diceva che avete lavorato insieme…
Mi ricordo quando traducemmo passi dell’“Odissea”. Eravamo andati a Capri perché lui avesse un po’ di pace. Siamo stati dieci giorni e lavoravamo anche la notte alle traduzioni. Doveva essere febbraio o marzo del ’ 68, c’era un freddo terribile a Capri. Lui, a mezzanotte, quando io non resistevo già più in piedi, mi prendeva per mano, mi portava ai muraglioni, la strada era ancora un sentiero, e mi faceva sentire il canto delle sirene. Tutte le sue traduzioni dei grandi poeti sono magnifiche.
Dove si trovava quando ha saputo che Ungaretti non c’era più?
Generalmente al mattino uscivo di buon’ora. In Brasile si comincia a lavorare presto. Quando tornavo, verso mezzogiorno, di solito trovavo la sua lettera ad aspettarmi sul pianoforte. Io a volte neppure riuscivo a mangiare, per leggere. Quel giorno, arrivata a casa, ho detto a mia madre che mi sentivo stanca. Sono andata a riposarmi. Mi ero coricata, stavo leggendo il giornale, O Estado de São Paulo, lo stesso che mi aveva dato la notizia dell’arrivo di Ungaretti nel ’ 66. Mi assopii. Suonò il telefono e una mia amica, che conosceva Ungà e aveva viaggiato alle volte con noi, mi disse: “Bruna, mi dispiace tanto della morte di Ungaretti”. Gettai giù il telefono e cominciai a singhiozzare forte. Dopo un po’ mia madre entrò in camera, mi confortava e io gridavo, piangevo, non riuscivo a darmi pace. Mia madre aveva nascosto la pagina del giornale con la notizia. Piansi, piansi, piansi molto, ma ero così lontana ed era già successo. Solo piansi, piansi, e lo presi con me Ungà e sarà sempre con me.