PHOTO
Chiunque abbia una cultura classica, cioè semplicemente una cultura, sa quasi per intuito che la pretesa di valutare gli individui attraverso i test è quanto di più inappropriato possa esserci. Non perché i test disponibili siano da perfezionare e raffinare, ma semplicemente perché è impossibile usare un metodo astraente e “quantitativo” per giudicare una materia concreta e “qualitativa” quale è la vita umana. Per quanti sforzi si facciano per tener da conto delle sfumature qualitative e delle specificità singolari, per principio queste eccederanno sempre le griglie imposte da un tipo di “conoscenza”, quella formale e razionale, universalizzante e generalizzante, che non è affatto la conoscenza o, almeno, non tutta la conoscenza. Eppure, nella nostra vita, pubblica e privata, a cominciare dai settori cruciali dell’istruzione, del lavoro, delle politiche pubbliche o amministrative, i test proliferano e assumono un’aura di “verità” e “oggettività” a cui tutti si adeguano: credendoci, i gonzi o i male acculturati; facendo finta di crederci e soggiacendo a questa “finzione sociale”, a questo “gioco linguistico”, tutti gli altri. Il problema della proliferazione, e dell’accettazione supina, di questi test c’è ed è strano che pochi studiosi si siano chiesti perché ciò accada. Né abbiano fatto oggetto di analisi o studio questa tendenza, affrontandola di petto e mettendone in discussione non semplicemente i risultati ma più radicalmente i presupposti. E’ con questo stato d’animo, e quindi con molte aspettative, che mi sono perciò messo alla lettura del libro dell’insegnante e saggista francese Angélique Del Rey, appena pubblicato in italiano da Eleuthera con il suggestivo titolo: La tirannia della valutazione ( pp. 189, euro 15). E’ un libro colto e pieno di teoria, ma che, dopo averlo letto, mi ha lasciato alquanto deluso. È come se l’autrice, una volta individuato e descritto con cognizione di causa il problema, allargandolo fra l’altro a dismisura, mossasi alla ricerca di “spiegazioni” abbia girato attorno senza afferrarla a quella più plausibile. Lasciandosi, per converso, troppo facilmente sedurre da quella più popolare fra certi intellettuali, i quali riconducono semplicisticamente il fenomeno della valutazione oggettivante a una esigenza di efficienza e di “controllo” delle “risorse umane” da parte di un non meglio definito neoliberismo dominante. Il quale diventa, ai loro occhi, una sorta di entità totemica o deus ex machina, un potere totalitario e univoco che tenderebbe non semplicemente a dominare gli uomini, ridotti a produttori e consumatori, ma a conquistarne l’animo. Un modo di ragionare, a ben vedere, che fa rientrare dalla finestra proprio quel pensiero astratto e generalizzante che l’autrice, in nome di un concretismo individualizzante e non “deterritorializzante” ( termine che usa spesso prendendolo in prestito da Gilles Deleuze e Félix Guattari), aveva criticato nei sistemi di valutazione. E’ come se Del Rey non si accorgesse che prima che che concernere i macrosistemi economici, il problema è prima di tutto culturale e storico.
Il problema è quindi la valutazione. E’ giusto valutare, cioè dare un valore, alle cose e anche alle persone che ci circondano? L’autrice di questo libro, in senso radicale, ad un certo punto sembra contestare la stessa valutazione, che non sarebbe in grado di raggiungere le profondità e il proprio di ogni individuo. In verità, l’attività del valutare è connaturata alla vita e all’essere umano: noi viviamo e ci rapportiamo continuamente agli altri col pensiero, cioè emettendo giudizi, e quindi dando loro valore e peso, o meglio attribuendo loro qualità. Lo facciamo in modo più o meno soddisfacente, tanto che continuamente affiniamo i nostri giudizi o anche li rivediamo completamente. E siamo, di volta in volta, soggetti, ma anche oggetti del giudizio altrui. Il giudizio è poi sempre contestualizzato, in rapporto dialettico con ciò che è giudicato e con la situazione concreta in cui giudicante e giudicato si muovono. E’ perciò giusto criticare i giudizi, ossia le valutazioni, che pretendono di avere un valore assoluto e costante, ma non si può affatto criticare l’attività del valutare in sé per il semplice fatto che il “valutato, ergo sum” che Del Rey prende di mira ha una valenza ontologica che come tale non può essere emendata. La valutazione mette in gioco soggetto e oggetto, in un rapporto che non è affatto predeterminato e la cui “oggettività”, diciamo così, non può essere presupposta da griglie interpretative preconfezionate ( casomai in an appositi “bignamini”) ma va costruendosi nel rapporto stesso di conoscenza- valutazione reciproca in cui consiste il nostro essere nel mondo. L’elemento che perciò andrebbe sottolineato è che la valutazione può svolgersi solo su piccola scala, meglio se individuale: direi in un “faccia a faccia” fra chi, in quel determinato contesto ( non necessariamente in altri), è il giudicante e colui che è invece giudicato. Il passaggio non tematizzato che l’autrice continuamente compie dalla valutazione interpersonale alla valutazione su larga scala basata su tecniche manageriali o griglie statistiche, fra valutazione privata e e valutazione pubblica, inficia perciò molte delle osservazioni, pur profonde, di questo libro. Non nascondiamoci però dietro un dito: il problema centrale che sta a cuore all’autrice è quello delle valutazioni utilizzate da aziende, istituti di istruzione e amministratori pubblici. Il discorso precedente non è però, rispetto a questo, una digressione. Solo se teniamo fermo il modo di esplicitarsi effettivo e umano del valutare ( che fra l’altro impegna il giudicante con tutta la sua libertà e responsabilità), possiamo infatti capire ciò che non va, e anzi è addirittura per certi aspetti ridicolo come mette in luce Del Rey, nei moderni sistemi di valutazione basati sui test. Essi sono in effetti il prodotto, più o meno degenere, della cultura razionalistica e del positivismo vecchio e nuovo che percorre la modernità. E’ qui, non nel fantomatico neoliberismo, che va individuato il “colpevole”. Il razionalismo, che è altra cosa dalla ragione, si basa su quello che in tedesco si chiama Verstand o “intelletto astratto”, il quale, dissezionando e frammentando il reale, astraendo appunto dalle specificità e singolarità delle situazioni, pensa poi, raccattando i pezzi, di giungere olisticamente alla sua “verità”. Una “verità” che varrebbe anche per il futuro, aiutando a individuarne le sue più riposte linee di tendenza del tutto a prescindere da ogni libertà e sana imprevedibilità umana. In verità, Del Rey sfiora il punto, anche se poi è troppo accecata dai suoi pregiudizi politici per svilupparlo e portarlo al livello dei sistemi culturali predominanti, cioè del potere culturale, piuttosto che a quello delle strutture politico- economiche. A pagina 154, infatti, ella riporta, aderendovi, la distin- zione elaborata da Edgar Morin fra razionalità e razionalizzazione: «La razionalità è il gioco, il dialogo costante tra la nostra mente che crea strutture logiche, che le applica al mondo, e questo mondo reale. Quando il mondo non si accorda con il nostro sistema logico, dobbiamo allora ammettere che il nostro sistema logico è insufficiente, che soddisfa solo una parte del reale. La razionalità, in qualche modo, non pretende mai di ridurre a un sistema logico tutta la realtà: piuttosto, ha la volontà di dialogare con ciò che le resiste. Al contrario, la razionalizzazione consiste nel voler chiudere la realtà in un sistema coerente. E tutto ciò che in realtà contraddice questo sistema coerente è scartato, dimenticato, messo da parte, visto come un’illusione o un’apparenza». Ove è chiaro, osserva giustamente Del Rey, che «le nuove forme di valutazione dimenticano il contesto reale perché razionalizzano e non vogliono dialogare con la realtà».
Dicevamo dei pregiudizi politici dell’autrice. Essi, a mio avviso, la portano a un’incomprensione e a una sottovalutazione. Dal primo punto di vista, infatti, è evidente che è stato proprio il pensiero liberale a lei tanto inviso, in tutte le sue principali voci, che ha avuto come contraltare polemico nel Novecento proprio la cultura positivistica, proprio quel razionalismo astratto che si esplicita in tanti nostri modi di pensare e che pretende di riformare la società secondo i suoi principi. Seppur con qualche difficoltà, a un certo punto la Del Rey è però costretta ad osservare che in verità Friedrich von Hayek ammetteva «il fallimento della razionalità lineare: da un lato, l’impossibilità di vedere tutto ( fallimento della trasparenza razionale) e, dall’altro, l’impossibilità di prevedere tutto ( fallimento del controllo)». E, in verità, più che un’ammissione, quella del liberale austriaco era l’esplicitazione dell’architrave che sorregge tutto il suo pensiero. Quanto invece alla sottovalutazione, la Del Rey non sembra considerare quello che è il più potente sistema di potere alleato della cultura positivistica, in senso lato intesa: quell’apparato, spesso transnazionale, di tecnici e esperti, accademici e consulenti, che, sulla standardizzazione e omogeneizzazione dei metodi di valutazione, e in genere sull’offerta delle proprie “competenze” astrattamente intese, letteralmente campa. Come tutti i gruppi di potere e le burocrazie esso vuole, prima di tutto, preservarsi. La Del Rey mette sotto accusa l’economia che avrebbe, ad un certo punto, soppiantato le altre scienze sociali. A me sembra che invece il problema si collochi storicamente nel punto preciso in cui tutte le scienze sociali, affrancatesi dalla filosofia, hanno perso di vista la complessità del reale e la sua effettività “inoggettivabilità”.
Ritornando più nello specifico ai sistemi di valutazione, la Del Rey mette bene in luce la inconsistenza, e anche l’inefficacia, di una cultura, che si spaccia per “oggettiva” ma che è invece percorsa da scelte valoriali molto precise, che riduce l’azione a performances da comparare ( benchmarking) e che è basata in modo astratto su valori come la “meritocrazia”, la “competenza”, il “saper- essere”. In modo icastico, ma ineccepibile, ad un certo punto ella dice che “la meritocrazia uccide il merito”. In effetti, mai l’incompetenza e l’infantilismo comportamentale, oserei dire, ha dominato sulla scena pubblica, ed è stato premiato e riconosciuto, come in questo periodo in cui la retorica della competenza e della valutazione per merito sembra farla da padrone! Sono “effetti perversi”, per dirla con le parole del libro, di cui non c’è troppo meravigliarsi: accade tutto le volte che il pensiero astratto non si limita a svolgere il suo compito sussidiario e a svolgere il suo ruolo pratico, ma esige di porsi come la conoscenza senz’altro. Il trionfo del positivismo e del pensiero astratto ( di cui il politically correct è una delle ultime versioni), come aveva già individuato con parole profetiche Edmund Husserl fra le due guerre, segnala sicuramente una più generale crisi della cultura, e quindi della civiltà, occidentale. In ogni caso, forme di resistenza “umanistica” sono certamente possibili. E importante è ora, in questa fase, sollevare almeno il problema.