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Rimanere chiusi in cella da soli per ammirare delle opere d’arte. È questa l’idea dalla quale è partito Achille Bonito Oliva, rispondendo all’invito del comandante della polizia penitenziaria della casa circondariale Carmelo Magli di Taranto, Giovanni Lamarca. La mostra, aperta sabato 6 maggio e visitabile fino al 15 giugno, si intitola “Il carcere? Che opera d’arte! ” ed è la parte finale del progetto ' L’altra città', fatto da una ventina di detenute, impegnate in laboratori di arte e scrittura creativa tenuti da Giulio De Mitri, col supporto teorico di Roberto Lacarbonara e Paola Lacatena e la partecipazione di alcuni agenti. Ma più che una mostra, spiega al Dubbio il professor Bonito Oliva, è «un processo interattivo e partecipativo» che ha l’obiettivo di mettere in relazione il mondo del carcere con la società esterna.
Professore, entriamo nei dettagli del progetto.
È sicuramente un progetto particolare, unico in Italia, che coinvolge i detenuti e le detenute del carcere di Taranto. Parliamo di un istituto in piena attività che ha organizzato dei corsi legati all’arte e ha visto gli ospiti del penitenziario coinvolti nello sviluppo di una serie di lavori.
Da qui l’idea molto particolare…
Esatto. Abbiamo organizzato questo spazio espositivo in quattro celle da visitare una di seguito all’altra. E ciascuna contiene una diversa situazione. La prima e la quarta sono declinate al femminile, la seconda è una cella residenziale, mentre la terza è d’isolamento, dipinta di nero e da fruire totalmente al buio. L’altra cosa interessante è l’impostazione. Lo spettatore infatti viene accolto seguendo le normali procedure carcerarie. Gli saranno fatte le foto segnaletiche, sia frontalmente che di profilo, e dovrà lasciare le impronte digitali e la firma liberatoria.
Insomma sarà “schedato” ed entrerà in carcere?
A quel punto attraverserà un lungo corridoio con alcune opere esposte. La fruizione della mostra è singola. Lo spettatore viene portato nella prima cella, chiuso a chiave e dovrà sostare obbligatoriamente in ciascuna delle quattro camere tre minuti. In questo tempo viene in contatto con quello che si vede dentro.
Qual è la differenza con le mostre “tradizionali”?
C’è una modifica dello status dello spettatore, il quale normalmente nella fruizione dell’arte nei musei è un escluso. Nel caso del carcere di Taranto è incluso, costretto ad ascoltare il rumore della cella che si chiude a chiave, a restare in silenzio e da solo e a fruire di tutto quello che c’è nella cella. Per farlo ha venti minuti a disposizione. Quindi più che essere una mostra che ha degli oggetti da vedere, parliamo di una vera e propria esperienza che va oltre lo sguardo. È plurisensoriale. Più che i lavori esposti diventa importante l’identità dello spettatore che ha una presenza meno platonica e più interattiva. Le celle hanno una funzione di scambio con lo spettatore, gli infondono una sensazione claustrofobica. Resta chiuso da solo prima di spostarsi altrove per una nuova immersione nella solitudine. Senza dimenticare il lavoro egregio svolto dai detenuti coinvolti nel progetto.
Pensa di replicare questa esperienza in altre carceri?
Non saprei, anche perché c’è stato un grosso impegno per ottenere tutti i permessi necessari per una mostra in un istituto attivo. Chi vorrà visitarla dovrà prenotarsi ( al 3408227225 ndr.) e venire tutti i pomeriggi dalle 15 alle 19. Ovviamente, vista la particolarità dell’esperienza, non puntiamo a un successo di botteghino, ma alla qualità della partecipazione.
Tornando alla mostra di Taranto, si può dire che l’arte è legata alla sofferenza?
L’arte serve a fare domande, non a dare risposte. Questi spazi nei quali lo spettatore entra e viene recluso inducono momenti di grande concentrazione e riflessione. È inevitabile che l’arte sviluppi momenti di interrogazione che partono dall’artista e arrivano al pubblico. Il risultato al quale punta questa mostra è quello di smuovere la passività del pubblico, di produrre nuovi processi di conoscenza.
Parlando di carcere il pensiero va subito a Marco Pannella che ha condotto sul tema una delle battaglie più importanti della sua vita.
Il mio pensiero, quando ho iniziato a lavorare a questa idea, è andato a Gramsci. Lui è riuscito con grande dignità, pur stando in carcere, a elaborare un pensiero altissimo senza mai perdere la calma. La grandezza di Gramsci è impressionante. Ho comunque molto rispetto per Pannella e i radicali: hanno portato avanti delle battaglie enormi per i diritti civili. Sono molto solidale con queste battaglie e alla maniera in cui Pannella le ha portate avanti, senza mai demordere ed esponendosi personalmente con i suoi scioperi della fame e della sete, soprattutto.
Utilizzando anche il suo corpo.
Pannella seguiva il modello gandhiano: non violenza ma intransigenza.
Allargando il discorso all’arte nel suo complesso lei ha più volte evidenziato il particolare utilizzo che anche Totò faceva del suo corpo.
Pannella agiva sulla privazione, Totò invece agiva con un corpo impostato come una macchina da guerra con cui spiazzava gli altri. Utilizza la comicità per ribaltare i luoghi comuni e dunque sviluppare un nuovo tipo di conoscenza. Volendo catalogarlo direi che quello di Totò è un umorismo dadaista.
Come spiega il successo dell’arte e delle mostre?
L’arte contemporanea, interrogando la vita attraverso le sue forme, avvicina lo spettatore a questi eventi. Non si tratta di esperienze ludiche, ma di occasioni che fanno riflettere. Nel momento in cui la politica e l’economia sono in crisi e ci sono guerre in tutto il mondo ecco che l’arte riacquista una funzione: quella di trasmettere responsabilità al singolo individuo. L’artista con le sue forme e lo spettatore con la sua fruizione costruiscono una catena di solidarietà progressiva. L’arte in questo senso riprende potere in quanto trova una sua etica.
In questo discorso qual è la funzione dei critici?
Progettano il passato, sviluppano un’interpretazione. Mi riferisco ai critici e non ai curatori, che sono una costola e fanno manutenzione del presente, quasi una sorta di “filippini della critica”. Il critico fa interpretazione. Io appartengo all’ultima generazione dei critici che insegnano all’università, scrivono libri, pubblicano sui giornali e fanno tendenza. Una figura che in qualche modo ricorda quella dell’intellettuale post- rinascimentale.
Giulio Carlo Argan è stato un suo maestro.
Ho avuto l’onore di essere stato chiamato da Argan a scrivere l’ultimo capitolo della sua “Storia dell’arte”. Credo che l’abbia fatto per simpatia anche perché le mie teorie, sia sul manierismo sia sulla Transavanguardia, non erano in sintonia con l’impostazione teorica di Argan. Penso che abbia voluto premiare la mia attitudine a dare protagonismo e centralità alla funzione del critico.
Lei ci ha messo la faccia e il corpo, su tutto la copertina di Frigidaire che la ritraeva nudo.
Con un’attitudine francescana direi che mi sono spogliato di tutto.
È stato il protagonista di una stagione molto importante che ha avuto Roma e Napoli al centro.
Su tutto metterei la metropolitana di Napoli: un museo obbligatorio che ha avuto riconoscimenti internazionali. Una fruizione del contemporaneo che non richiede il biglietto d’entrata o la presenza di un museo, ma è scorrevole e crea familiarità. Parliamo di 160 opere realizzata dagli artisti più importanti del mondo, collocate in stazioni progettate da grandissimi architetti.
Con Graziella Lonardi e Lucio Amelio ha fatto conoscere al grande pubblico artisti come Andy Warhol, da lei definito il Raffaello della Pop Art, Joseph Beuys.
Tra le tante cose con Michele Buonomo organizzammo la mostra Terrae Motus che coinvolse tanti artisti. Fu un evento molto importante in un momento particolare.
Quel fermento culturale c’è ancora a Roma e Napoli?
A Napoli il progetto della metropolitana continua, ci sono ancora delle stazioni da realizzare. C’è un museo come il Madre che funziona benissimo, in città ci sono galleristi molto validi come Peppe Morra, Lia Rumma, Trisorio. Napoli oggi è in grado di competere con le altre città per l’arte, mentre un tempo i nostri erano stati “eroici furori”.
E Roma, dopo la stagione di Argan e di Renato Nicolini, come è messa?
Purtroppo no. Non ci sono figure simili. Tenga presente che Argan, pur essendo uno storico rigoroso, permise all’estro di Nicolini di invadere la città con un evento come l’Estate romana che riportò per strada le persone dopo gli anni di piombo. Oggi c’è un vuoto.
È un vuoto anche artistico?
No. L’arte ha un respiro biologico. Gli artisti producono in ogni condizione, ci sono state grandi opere anche nei periodi di guerra. Il contesto può favorire la diffusione dell’arte, ma non influisce sulla creatività.
La Transavanguardia è stato un movimento che ha portato alla ribalta artisti come Francesco Clemente, Sandro Chia, Maurizio Cucchi, Mimmo Paladino, Nicola Di Maria. E oggi?
Oggi non ci sono dei nuovi movimenti artistici, perché la postmodernità non vive sul valore del collettivo, del gruppo. C’è un ritorno all’individualità. Gi artisti camminano in fila indiana e in solitudine.
Professore, dopo aver insegnato storia dell’arte contemporanea alla Sapienza prosegue ancora nell’attività accademica?
Sono responsabile scientifico del Master of art alla Luiss, molto originale perché all’inizio dell’anno introduco un tema che diventa un titolo e poi una mostra in uno spazio espositivo a Roma. Il tutto collettivamente curato dagli studenti che imparano come funziona il sistema dell’arte in tutta la sua complessità. Anche questa è un’esperienza molto interessante e stimolante.