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A quasi quarant’anni dalla morte è forse arrivato il momento del giusto riconoscimento letterario per Giuseppe Berto. Parliamo di riconoscimento critico, perché Berto in realtà è stato tutt’altro che un marginale, un dimenticato o un autore frustrato e senza successo. A Roma, una bella via dell’Eur porta da tempo il suo nome. Nella cittadina calabrese di Ricadi gli è stato dedicato un importante viale e a Mogliano Veneto, suo paese natale, un noto premio letterario. E i suoi libri hanno venduto come pochi altri. Ma stavolta c’è qualcosa in più. È infatti nelle librerie una nuova edizione del suo capolavoro, Il male oscuro, pubblicato dalla casa editrice Neri Pozza ( che annuncia anche la riproposizione di altre opere dello scrittore nato nel 1914 in Veneto e scomparso, nel ’ 78, a Capo Vaticano). Una edizione ( pp. 508, euro 18,00) – che dopo quelle apparse in ordine cronologico da Longanesi, Rizzoli e Marsilio – arriva con una postfazione di Emanuele Trevi (“ Lo stile psicoanalitico di Berto”) che è in grado di allontanare definitivamente quel senso di fastidio che la critica ufficiale aveva sempre mostrato per Berto e la sua opera. Un senso di fastidio che, tramandato conformisticamente agli addetti ai lavori, si era tramutato tout court nel rifiuto da parte di un certo establishment nel riconoscere nel narratore veneto uno dei più importanti e innovativi autori del nostro intero Novecento. « Noi ragazzi degli anni ’ 70 – ha, ad esempio, confessato Dario Biagi, autore della migliore biografia dedicata allo scrittore: Vita scandalosa di Giuseppe Berto (Bollati Boringhieri) – non sapevamo bene chi fosse Berto, né come inquadrarlo, ma lo detestavamo… » . Tanti i motivi di questa incomprensione, tra i quali la sua « messa all’indice da parte dell’establishment letterario » , al quale aveva sempre dato fastidio il suo successo nelle vendite e la enorme popolarità all’estero, cose rare per la narrativa italiana dell’immediato secondo dopoguerra. Di fatto, Il cielo è rosso e Il brigante – i suoi due primi romanzi – solo negli Stati Uniti e in Urss vendettero più di due milioni di copie. Alcuni dei film che Berto sceneggiò – Anonimo veneziano, Morte di un bandito, Oh Serafina – sono d’altronde considerati veri e propri cult movie e sono state pellicole di grande successo di pubblico. E il suo capolavoro, Il male oscuro, è indubbiamente il romanzo italiano del Novecento più conosciuto al mondo. Poi c’erano anche state addirittura le parole di apprezzamento spese addirittura dal premio Nobel Ernest Hemingway ( non certo generosissimo in quanto a elogi) per Il cielo è rosso, il romanzo d’esordio di Berto pubblicato nel ’ 47. Quelle lodi dimostravano che la prosa bertiana aveva un respiro internazionale, davvero raro nelle pagine degli scrittori italiani. Tanto che Berto si fece crescere la barba come ringraziamento ma anche come dispetto: pare che a Moravia – stroncatore e nemico di Hemingway – Berto avesse detto di aver rinunciato al rasoio proprio per il gusto di ricordargli lo scrittore tanto avversato.
Per venire al romanzo ora riproposto, Il male oscuro, uscì nel ’ 64 e in un’unica settimana vinse sia il premio Viareggio sia il Campiello. L’autoanalisi del protagonista, dissolta dal flusso di coscienza in una prosa d’avanguardia, tutta in prima persona, asistematica, volutamente povera di punteggiatura, rappresentava in quegli anni qualcosa di veramente innovativo, che andava molto oltre il modello, pur evidente, di un romanzo come La coscienza di Zeno. Ma non era solo per via dello stile che Il male oscuro di Berto improvvisamente rompeva gli schemi convenzionali della prosa italiana: c’entravano una trama piena di flashback, la sfacciata sincerità tipica dei grandi scrittori, la determinazione a prendere di petto un tema moderno e inedito nello stesso tempo. All’epoca la depressione era, tutt’al più, un capriccio da borghesi, una posa da intellettuale esistenzialista, un vizio da borghesi eccentrici, da “ malati di nervi” come si diceva allora. Berto ha invece avuto il coraggio, primo in Italia, di innervare del suo romanzo la lettura e la lezione di Sigmund Freud. Lo scrittore butta sulla pagina, in presa diretta, la sua stessa psicoanalisi personale, tanto che il titolo del romanzo diventa da quel momento in poi sinonimo accettato, se non abusato, della depressione. Nel ’ 58, del resto, Berto aveva quarantaquattro anni e stava malissimo, traumi infantili e un irrisolto problema con la figura del padre, fino a quando Nicola Perrotti – luminare freudiano e tra i fondatori della Società Psicoanalitica Italiana – lo prese in cura. E il terapeuta convince lo scrittore a riportare tutto sulla pagina, così come viene, senza fermarsi mai. In due mesi di autoreclusione nella casetta che s’è comprato in cima allo sperone calabrese di Capo Vaticano, lo scrittore butta giù il testo torrenziale di quello che diverrà Il male oscuro, che – dirà – « è press’a poco il racconto della mia malattia » . Certo, Berto ammetterà il suo debito con La coscienza di Zeno di Svevo e La cognizione del dolore di Gadda, dalla quale ricavò il titolo del suo capolavoro. Il male oscuro, tuttavia, segna una svolta fondamentale rispetto a quelle opere precorritrici. Non descrive semplicemente una nevrosi ma la mima, la incarna, la tramette al lettore. « Il suo linguaggio – annota ora Emanuele Trevi – è la manifestazione stessa del male, l’epifania tragicomica della sua oscurità » . Un’assoluta novità estetica e narrativa che Berto non esitò a battezzare « stile psicoanalitico » .
Nelle pagine del romanzo c’è indubbiamente il più grande lamento dell’Io del panorama letterario del Novecento italiano. È un libro che non ha pari in Italia nella seconda metà secolo scorso letterario, per semplicità di ideazione, per energia stilistica, forza di persuasione, potenza di effetto. Il libro quando uscì, era appunto il ’ 64, si avvantaggiava sicuramente di alcune suggestioni letterarie del momento. Il romanzo di Joyce Ulisse era appena uscito nella prima traduzione italiana di Giulio De Angelis ed entrava allora ufficialmente nella nostra letteratura. E nei fatti, gli anni 60 sono in Italia gli anni della scoperta di Joyce: Raffaele La Capria tentava le tecniche nuove con Ferito a morte, Umberto Eco esercitava sul capolavoro joyciano le sue prime prove critiche di semiologo, e Berto ne prese qualche ispirazione più che stilistica. Perché nelle pagine de Il male oscuro è centrale, essenziale, la tecnica del flusso di coscienza, tutto procede con una sintassi aperta e attraversata dalle associazioni di idee incontrollate. Il romanzo entusiasmò subito Dino Buzzati e fu osannato da Indro Montanelli, ma per il resto trovò – al di là dell’immenso successo di vendite – un’accoglienza tiepida quando non diffidente. E venne stroncato, quando non travisato dalla critica di formazione crociana o gramsciana. Tra i detrattori più feroci, Pier Paolo Pasolini, che accusava Berto di sprecare il suo talento raccontando vicende personali, e che, alla notizia dei due premi letterari, andò su tutte le furie: « È una vergogna, non dovevano dargliene neanche uno! » . Una reazione, quella pasoliniana, che è stata spiegata da un giornalista amico della scrittore, Giancarlo Meloni: « Col fiuto che lo distingue, Pasolini vede subito in Berto l’autore del romanzo italiano che vuole la gente, impastato di sentimenti, grandi problemi e qualche speranza, ironico e drammatico insieme: il Nievo del Novecento. Uno che minaccia di diventare il primo » . E poi, a spiegare le stroncature che colpiscono Il male oscuro, c’era anche il fatto – sottolineato da Dario Biagi – che la novità del libro aveva completamente spiazzato la cultura di sinistra dell’epoca, la quale « era in ritardo sulla psicoanalisi, ne ignorava le tecniche e, non avendo adeguati metri di giudizio, equivocava » . D’altronde, Berto non si allineò né schierò mai. « E se non eri dichiaratamente di sinistra – ha raccontato la figlia dello scrittore, Antonia – in quell’epoca eri costretto al silenzio, altrimenti ti davano del fascista. Lui diceva quello che pensava senza nascondersi.
Guerra in camicia nera, il libro che mio padre dedicò agli anni del conflitto in Africa, è un’enorme denuncia delle guerra, ma ha fatto comodo a molti fraintenderlo. Mio padre si teneva lontano da determinati ambienti, non si è mai compromesso, mai mascherato, non ha mai negato quello che aveva fatto. E gli è costato molto essere ostracizzato…».
Lui, del resto, si tenne sempre a debita distanza dai salotti che contavano e dalle consorterie politico- culturali. Reduce dal campo di prigionia per “ non cooperatori” di Hereford, non si affrettò mai a fare abiure sulle sue guerre da fascista e, pur dichiarandosi « anarchico per rassegnazione e per disgusto » , non si aggregò mai ai carri egemoni. « Io – dichiarò in una delle sue ultime interviste, rilasciata alla giornalista radiofonica Dina Luce – non voto. Io il mio dovere di cittadino lo faccio scrivendo, non mettendomi al servizio dei partiti. Ho votato due volte per un amico socialista ma quando mi sono accorto che non capiva niente, ho smesso di votare… » . Le sue bestie nere, ha scritto Corrado Stajano, erano i critici e gli intellettuali che allora gravitavano intorno al Mondo di Mario Pannunzio e all’Espresso di Arrigo Benedetti. E Sergio Saviane, una delle firme più note dell’Espresso, ha ricordato come negli ambienti della redazione di via Po fosse stato decretato un vero e proprio « ostracismo, anzi, l’eliminazione totale, non ho mai capito perché, per Giuseppe Berto, uno dei pochi scrittori autentici d’Italia » . Probabilmente, come una volta suggerì Carlo Bo, i critici « non gli perdonavano la colpa del successo » . Eccoci, quindi, al punto di partenza. È forse solo adesso, con la ripubblicazione da parte di Neri Pozza, che comincia un’altra epoca. Quella del giusto riconoscimento, anche critico, per Berto. Come si legge nella fascetta editoriale della nuova edizione, Il male oscuro, viene finalmente presentato come « il capolavoro di un grande del Novecento » . È anche questo è un segno che in questi cinquant’anni tanta acqua è passata ( beneficamente) sotto i ponti.