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DI EMIDIO DIODATO FEDERICO NIGLIA
Uno degli argomenti avanzati da Silvio Berlusconi per spiegare la sua decisione di scendere in campo per l’ennesima volta, in occasione delle elezioni europee del 26 maggio, è stato quello della sua familiarità con i principali leader internazionali.
Il tutto può apparire paradossale, se si riflette sul modo in cui si è conclusa la precedente vita politica di Berlusconi. Vale a dire quel 2011 in cui sembrò che l’unico modo che l’Italia avesse per uscire dalla crisi fosse proprio l’uscita di scena del Cavaliere. In molti in quell’occasione gridarono al complotto, dimenticando l’oggettiva debolezza del governo Berlusconi. Non bisogna però dimenticare gli sguardi ironici di Merkel e Sarkozy, di un’innegabile atmosfera di scetticismo ( alle volte di ostilità) verso Berlusconi.
Ma proprio per questo, quella del Berlusconi leader internazionale ci appare un po’ forzata, se non come una scelta tattica elettorale che fa leva sull’inesperienza internazionale delle attuali forze di governo e sulle difficoltà che il governo giallo- verde incontra nel dialogo con Bruxelles.
Eppure dietro l’ultima sortita di Berlusconi c’è qualcosa di più. A voler dirla tutta, dietro a Berlusconi l’europeo c’è il senso più profondo degli ultimi venticinque anni di politica europea ed internazionale dell’Italia. Non tanto per il controverso “stile” internazionale di Berlusconi, quanto per la sua idea di politica internazionale e per il modo in cui ha declinato la politica estera nel contesto nazionale. Scorrendo il programma politico di Berlusconi nel 1994 di politica estera se ne trova poca, e i contenuti non sono particolarmente innovativi. È un’Italia che si muove nel solco della tradizione e che aspira ad assumere un ruolo più dinamico, in Europa e nel mondo. Diverso sarà il suo discorso dopo il 2001, quando invece Berlusconi connoterà la sua politica estera in modo più evidente, prendendo una posizione netta a fianco degli Stati Uniti nella “war on terror” e prendendo le distanze da un’Europa franco- tedesca che sembrava voler negare all’Italia del Cavaliere il ruolo che le spettava. Ma la novità maggiore di Berlusconi in politica estera non sta tanto nell’aver ripensato, dopo il 2001, le coordinate fondamentali della politica estera italiana. Certo, ha declinato la politica estera in base ai tempi e ai suoi orientamenti politici, ma non si può certo dire che abbia rivoluzionato le priorità e le alleanze.
Se Berlusconi è stato un profondo innovatore è in un ambito altrettanto fondamentale delle relazioni internazionali, quello della legittimazione dell’azione internazionale. Negli anni della prima repubblica il collegamento tra popolo e politica estera era diventato sempre più formale e stereotipato. Sebbene gli italiani continuassero ad appassionarsi e a scontrarsi sulla politica estera – lo avevano fatto per prima volta in occasione della ratifica del patto atlantico e l’avrebbero fatto ancora negli anni Ottanta in occasione della crisi degli euromissili – la partecipazione dell’elettorato e dell’opinione pubblica al dibattito sulla politica estera era incostante e spesso retorico.
Ai partiti maggiori risultava più agevole sottrarre la politica estera dal dibattito corrente ( soprattutto la Democrazia Cristiana) o lasciare il confronto su un piano ideologico ( soprattutto il Partito Comunista).
Questo stato di cose non solo precluse, conclusa la Guerra fredda, l’emergere di un dibattito qualificato sull’azione internazionale del paese, ma ha anche favorito la deriva tecnocratica di cui oggi tanto si parla.
Nel momento in cui Berlusconi giunse al governo, nel 1994, era entrato in vigore da poco più di un anno il trattato di Maastricht, che può essere visto ( a prescindere dal giudizio di merito su di esso) come il culmine dell’opera tecnocratica. Il trattato che più di tutti definisce oggi la condizione degli italiani in Europa è stato negoziato e approvato senza un’effettiva partecipazione del Parlamento ( che proprio in quel frangente viveva una delle sue maggiori crisi) né dell’opinione pubblica. Berlusconi comprese che, soprattutto in un mondo che si apriva e si globalizzava, le relazioni internazionali potevano e dovevano vedere la partecipazione e il sostegno degli elettori.
Con lui la politica europea ed estera tornava a collegarsi al popolo e lo faceva attraverso una figura nuova, quella del leader che operava in perfetta autonomia sulla scena internazionale.
Berlusconi certamente non ha inventato il personalismo sulla scena internazionale, e tra i suoi predecessori non mancano ambizioni leaderistiche, da Fanfani a Craxi. Berlusconi portò però al limite la personalizzazione della politica estera, nella convinzione che attraverso l’alchimia tra statisti si possa trovare la soluzione ai principali problemi internazionali. Manca completamente – qui il fatto che Berlusconi fosse un imprenditore si fa sentire – la coscienza del fatto che nel mondo delle relazioni internazionali la soluzione non sia sempre dietro l’angolo, o addirittura che in tanti casi lo status quo, per quanto insoddisfacente, sia da preferire a scenari evolutivi potenzialmente destabilizzanti.
Questo forse spiega il successo, a volte apparente a volte reale, nel dialogo con alcuni dei principali leader internazionali ( leggi George W. Bush e Vladimir Putin), ma anche la difficoltà di trovare un dialogo con l’Europa.
Tradizionalmente infastidito dai dettagli e dai tecnicismi, Berlusconi ha sempre cercato di portare il dialogo nei Consigli europei sui grandi temi. Non ha sempre compreso che l’Unione Europea, soprattutto nei momenti non costituenti, funziona per accordi di dettaglio e per tessiture minute. Questo spiega perché Berlusconi, il cui europeismo appare ( soprattutto nel momento attuale) come sincero e vigoroso, sia stato poco compreso dai suoi interlocutori, e che sia passato, alla fine, per euro- scettico. La possibilità di storicizzare la figura di Berlusconi, a prescindere dal fatto che il Cavaliere avrà o meno un’ultima vita politica dopo il voto di maggio, permette di comprendere meglio anche il nesso di continuità tra il ventennio berlusconiano e l’attuale leadership politica, soprattutto sul versante internazionale. A livello internazionale Berlusconi è stato un leader che, pur giocando molto di iniziativa, non ha mai messo in discussione né le regole del gioco né il fatto che l’Italia dovesse far di tutto per rispettare le regole internazionali ( ivi incluse quelle europee).
In questo senso si può dire che in politica estera Berlusconi non è mai stato un leader populista, nel senso che non è mai stato disposto a sacrificare ( o a mettere seriamente a repentaglio) la stabilità del paese per ascoltare la voce del popolo.
Al massimo si può dire che Berlusconi si è speso più di altri per avere la fiducia degli italiani sulle scelte di politica estera, magari anche strumentalmente alla ricerca del consenso. Ma Berlusconi non si è mai fatto veramente interprete di quelle istanze radicali che pur animavano il paese e il suo stesso partito. Ad esempio, non ha mai voluto seguire Antonio Martino nelle sue prese di posizione fortemente critiche nei confronti del trattato di Maastricht e della costruzione europea.
La differenza tra l’era berlusconiana e l’oggi è che il filtro tra la dimensione interna e quella internazionale è venuto meno.
Berlusconi, nella sconfinata fiducia che ha avuto per se stesso ( e per gli italiani) ha sempre pensato che con il popolo- elettore si dovesse stabilire, sì, un legame fiduciario sui temi internazionali, ma che questo legame non avrebbe dovuto mai portare il governo a risentire, nella sua azione internazionale, di tutti i sommovimenti che hanno luogo sul piano interno, o a seguire, pedissequamente, quelli che sono gli umori dell’opinione pubblica. Forse non aveva tutti i torti.