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Avrebbe voluto regalare ai suoi figli un libro di pagine bianche. Lo spiegò così: «In ogni pagina scritta soltanto una parola: No, cioè le cose che io ho rifiutato di scrivere e che invece la carriera o il servilismo o l’opportunismo mi avrebbero consigliato di scrivere». Fino alla fine degli anni 70 la sua bicicletta da corsa stava in camera da letto: se la portava alla sua isola d’Elba l’estate e la usava anche a Milano per andare da casa al giornale. Poi, spararono a Montanelli, uccisero Casalegno e Tobagi e la lasciò all’Elba, perché doveva girare con la scorta. Parliamo di Gaspare Barbiellini Amidei, il giornalista e intellettuale, scomparso il 12 luglio 2007, dieci anni fa, in un ospedale romano per complicazioni dopo un intervento che doveva essere di routine. I giornali, il giorno dopo – a cominciare dal suo Corriere, dove aveva lavorato dal ’ 67 all’ 83 restandone, fino al 2007, editorialista – lo hanno ricordato per i tanti meriti e per il doppio impegno, nei quotidiani e nell’accademia, dove fu docente universitario, prima di Filosofia e poi di Sociologia della Conoscenza. Proprio nell’estate del 2006, il governo lo aveva nominato nel cda dell’Università Statale di Milano. E anche a Palazzo Chigi, Barbiellini aveva avuto un ruolo importante, nell’ 83 con il quinto governo guidato da Fanfani, di cui fu consigliere speciale ( in pratica sottosegretario) con delega a Cultura e Informazione.
Nessuno dei coccodrilli è forse riuscito a rendere però la cifra specifica della grande lezione di giornalismo e di cultura rappresentata da Barbiellini Amidei. Ci si incentrava sulla sua figura di “cattolico liberale” e sulla sua intuizione di portare i grandi scrittori in prima pagina. Ma tutto qui. Almeno sino all’uscita postuma, nel 2009, del suo libro autobiografico Quel ragazzo di via Solferino. Una lezione di giornalismo ( Marsilio, pp. 159, euro 15,00), in cui la specificità del ruolo svolto da Barbiellini emerge contemporaneamente alla complessità della sua biografia in- tellettuale. «Quando a 17 anni – esordisce – cominciai il mestiere al Secolo d’Italia, dove mi aveva portato il cognome, reso famoso negli anni di guerra dalla medaglia d’oro alla memoria di mio padre, caduto eroicamente in Grecia, mi presentai a Giorgio Almirante, direttore del quotidiano del Msi». Gaspare era infatti nato nel ’ 34 sul Transatlantico italiano Conte Rosso, che si trovava in navigazione sull’Oceano Indiano, ed era il figlio di un personaggio di rilievo del fascismo “di sinistra”. Suo padre, al quale a Roma è intitolata una strada dalle parti del Policlinico Gemelli, via Bernardo Barbiellini Amidei, durante la seconda guerra mondiale comandava un reparto in Grecia. Nel corso di un’azione avanzata, fu ferito, ma non volle abbandonare i suoi uomini. Gli legarono la gamba colpita col filo di un telefono da campo per fermare l’emorragia: morì dissanguato tra le braccia di Indro Montanelli, che era nello stesso reparto mormorando: «Di’ ai miei figli che sono morto da cristiano». Era stato volontario della Grande Guerra, fascista della prima ora, poi Podestà di Piacenza, fondatore del Dopolavoro e animatore dell’Istituto Orientale di Napoli.
Quasi naturale, in quel ’ 52 il rivolgersi al quotidiano degli ex fascisti da parte del giovanissimo Gaspare. Che in poco tempo si fa notare e ne diventa il giovanissimo caporedattore. Quindi, all’alba dei 60, il passaggio al Giornale d’Italia diretto da Santi Savarino e da poi da Angelo Magliano. Qui si conquista subito una certa fama per aver vinto con un suo articolo il premio Marzotto, allora una sorta di Pulitzer italiano. Contemporaneamente, e parliamo di un ventenne, insieme con Luigi Piredda e Giuseppe Barillà, dirige un mensile di cultura Elsinore. Lì Barbiellini stabilisce un sodalizio con Elémire Zolla e Cristina Campo, pubblicando per primo autori come Marius Schneider e Maria Zambrano. Importante anche il rapporto con Augusto Del Noce, mentre i suoi riferimenti intellettuali diventano Simone Weil e Albert Camus.
Nel mezzo di quella stagione, arricchita dall’ulteriore dialogo intellettuale con la cultura liberale e con Elena Croce, la figlia del filosofo, Barbiellini approda al Corriere della Sera. E lui, giornalista “colto” – autore del testo filosofico
Dopo Maritain – finisce nella redazione Cultura. Familiarizza con Montale, Carlo Bo e gli altri collaboratori della terza pagina. E con il direttore Piero Ottone ha l’idea dello scrittore di successo in prima pagina. Un’idea che lo conduce al suo capolavoro professionale, che gli vale un posto di rilievo nella storia del giornalismo italiano: l’aver convinto Pier Paolo Pasolini a collaborare con il giornale “borghese” per antonomasia. Fu quello il Corriere degli Scritti corsari, a partire dal primo articolo del 7 gennaio 1973. «Lavorare alle pagine culturale con Barbiellini Amidei – ha raccontato Claudio Magris, un altro degli scrittori arruolati – è stata una vera scuola e ricordo come una delle significative promozioni della mia vita il primo articolo che mi fece pubblicare, dopo qualche anno, nella mitica terza pagina. L’ho visto portare al Corriere Pasolini e discutere con lui al telefono, riuscendo alla fine, con pacati e rispettosi ragionamenti, a convincerlo, per fargli togliere la parola “cazzo”, allora e non solo allora fuori posto al Corriere ». In quegli anni Barbiellini fu il vicedirettore vicario, fu lui a reggere il timone del quotidiano di via Solferino negli “anni di piombo”, quando si doveva far fronte alle minacce di ogni genere che si addensavano sul maggiore giornale italiano Il 26 agosto del ‘ 78, quindi, l’altro suo capolavoro giornalistico: la pubblicazione sulla prima pagina della lettera d’amore di un cinquantenne. Il direttore Franco Di Bella ha la sensazione che la gente è satura di politica, occorre cambiare e aprire il giornale al mondo esterno. Ne parla con Gaspare. Il quale, rimaneggiando una lettera arrivata al giornale, la riscrive e la pubblica: «Mia fu la forzatura della prima pagina, perché una cosa del genere o la pubblichi lì oppure è come se non fosse mai uscita». Barbiellini è convinto che il tema andava imposto come elemento di discussione. Fu un momento di svolta, «che aprì le porte a un modello di informazione che è giunto ai nostri giorni: quello dell’importanza della sfera del privato». Fu uno spartiacque tra un decennio e l’altro, tra gli anni di piombo e quelli che sarebbero poi stati gli anni 80. Al punto che il giornalista Paolo Morando ha dedicato un libro al “caso” e a tutti i fenomeni correlati: Dancing Days. 19781979: i due anni che hanno cambiato l’Italia ( Laterza, pp. 327, euro 16,00).
«Intorno a noi – ha ammesso Barbiellini – la società galleggiava, come dicevano gli economisti, bolliva, come scrivevano i sociologi. E si disse che al Corriere stavamo inventando il “riflusso”…». È lunghissimo, infine, l’elenco dei libri – saggi, testi di sociologia, inchieste e anche romanzi – scritti da lui. Come sterminata è la sua produzione di articoli. A noi piace ricordare la sua direzione, del quotidiano romano Il Tempo – allora «giornale considerato il più a destra nello schieramento dei grandi quotidiani» – iniziata nel 1987. In quei giorni un raid razzista brucia alcune roulotte in un campo rom alla periferia di Roma: «Era domenica. Lessi la notizia sulle agenzie al ritorno dalla messa pomeridiana. Il Vangelo letto dal prete durante il rito ricordava l’esortazione di Gesù ad amare lo straniero come Cristo stesso. Scrissi un articolo di fondo contro gli xenofobi, dal titolo “Cristo zingaro e borgataro. Prima arrivarono le telefonate di protesta, poi le disdette degli abbonamenti. Un centinaio». E anche questa è una lezione di giornalismo.