In questi giorni è possibile vedere, sulle principali piattaforme streaming, un altro piccolo gioiello di una stagione cinematografica fortunata: Past Lives opera prima di Céline Song, regista sudcoreana, naturalizzata canadese.

Due amici di infanzia, Na Young e Hae Sung, vivono a Seul. Sono inseparabili fino a che la ragazzina, a dodici anni, si trasferisce con la famiglia in Canada. Dodici anni dopo Na, che ha cambiato il suo nome nel più occidentale Nora Moon e vive a New York lavorando come sceneggiatrice, scopre che Hae la sta cercando su Facebook. Iniziano, così, una relazione telematica a distanza, fatta di continue, trepidamente attese chiamate su Skype, che nasconde ben più di un’amicizia. Ma i due non si incontrano perché lei non torna in Corea, volendosi concentrare sulla sua carriera a New York e lui sta per trasferirsi in Cina per imparare il mandarino.

In un’ultima conversazione Nora/Na chiede a Hae di non sentirsi più, le loro vite sembrano troppo distanti e diverse perché quegli incontri abituali su Skype abbiano un senso. Passano ancora dodici anni (numero che scandisce la storia), Nora si è sposata con Arthur, un collega americano. Hae, che si è appena lasciato con la sua compagna, decide di andare a New York per incontrare Na. Troverà invece Nora/ Na e passeranno due giorni insieme, raccontandosi le loro vite e, soprattutto, i loro sentimenti inespressi con dialoghi mai banali.

La sera prima che Hae riparta per Seul vanno a cena insieme a Arthur. Bellissima la scena in cui i due protagonisti parlano in coreano, alla presenza di Arthur (che non capisce ed è per questo comprensibilmente terrorizzato per il suo matrimonio), del loro rapporto, di quello che avrebbe potuto essere e di quello che non è stato e forse non sarà mai. Ci fermiamo qui, non svelando il finale per chi, in questi brevi giorni di riposo, intendesse vedere un film, toccato da una grazia che va ben oltre una pur presente linea autobiografica.

Past lives è un’opera in sottrazione, minimalista si sarebbe detto negli anni Ottanta, in cui gli avvenimenti principali si svolgono fuori campo e lo spettatore ne vede solo gli effetti sui protagonisti. Mirabilmente riuscito il racconto di sentimenti che sono tanto concreti quanto incompiuti. Anzi che diventano assoluti proprio perché irrealizzati. Perfetto il ritratto di Nora/Na, sospesa tra due mondi: la Corea e il Nord America, la vita che avrebbe potuto essere e quella che dapprima le è stata imposta dai suoi genitori, ma poi ha deciso di vivere. Ma anche l’incompiutezza di Hae, la sua irrisoluzione non sono solo serventi, quasi uno specchio per Nora che l’aiuta a definire le sue scelte, e delineano con nettezza un personaggio che, nel finale, sembra accettare finalmente la sua vita che non ha mai davvero voluto altrove. Geniale l’invenzione (già in sceneggiatura o pensata al montaggio?) di “rimontare” la scena della cena vista con gli occhi del pubblico.

Lo spettatore italiano non potrà non vedere in Past Lives i riferimenti al cinema di Michelangelo Antonioni nel desiderio di rottura con la narrazione classica, nella ricerca di una discontinuità più vicina allo scorrere dell’esistenza che alla logica della causalità. Ma, soprattutto, nell’attenzione rivolta più agli effetti prodotti dagli eventi che agli eventi stessi. Quel meccanismo narrativo che la critica definì il “neorealismo interiore” (ed Antonioni stesso corresse in “neorealismo senza bicicletta”), che ritroviamo in questa storia coreana/ americana di un allontanamento coatto e degli effetti sulle vite dei protagonisti. Il desiderio di indagare aspetti del reale, che tendono a sottrarsi continuamente, e il conflitto, più o meno dichiarato, tra l’ambizione di un tutto visibile e la ricerca di una verità nascosta, che sono tra le principali invenzioni del cinema di Antonioni, sono ben vivi in Past Lives.

“L’assenza, l’attesa, il desiderio dell’altro – prendendo in prestito le parole con le quali Claude Sautet descrive l’opera del maestro italiano – cinema dell’evidenza svelata”. È un regalo ritrovare, nell’opera prima di un’autrice coreana/ canadese, gli “insegnamenti” del cinema italiano degli anni Sessanta. Anni in cui ci permettevamo, sbagliando, di considerare Monicelli, Risi, Scola autori minori, da commedia. In cui indicavamo al mondo una strada che altri oggi percorrono dopo oltre cinquant’anni. D’altronde, come dice Gassman ad un impaurito Trintignant nel Il Sorpasso: “Bel regista Antonioni: c’ha un Flaminia Zagato, una volta sulla fettuccia di Terracina m’ha fatto allunga’ il collo”.