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Cos’è il destino umano? Di quali esperienze si compone, in quali rapporti sta col tempo, si può prevedere, è in nostro potere trasformarlo, da chi dipende? Domande che girano intorno alla filosofia e alla letteratura, due attività umane in crisi cronica, almeno ad ascoltare il mondo italiano degli intelletti che, più spesso e più dolentemente di quanto un cuore sensibile si auguri e regga, ne celebra le esequie. Sono due le versioni funerarie prevalenti: concioni sulla polverosa inattualità - ma necessaria! - del conoscere tradizionale tradito dai modi frettolosi dell’ultramodernità o strilli sul definitivo superamento di quelle discipline (?) da parte dell’intrattenimento globale e globalizzante. Ma qualcuno che esce dal coro degli esausti c’è sempre. Stavolta si tratta di qualcuno che s’è predisposto a una rifondazione di quelle domande con due polveri magiche: un’incrollabile fedeltà all’antico compito del narratore e lo slancio sovversivo dell’esordiente. È Bernardo Zannoni, che col romanzo intitolato “I miei stupidi intenti” ha prima - lo scorso anno - convinto l’editore Sellerio a pubblicarlo, e dopo - due mesi fa vinto il premio Campiello. Il romanzo è l’autobiografia di una faina, Archy, che scopre il destino umano. Archy nasce in una notte invernale da una madre arcigna e insieme ai suoi fratelli e alle sue sorelle impara presto che la forza è l’unica moneta valida per sopravvivere nel bosco. Ma Archy diventa giovane tradendo quel primo insegnamento. Assecondando il suo istinto, s’innamora e s’azzoppa, due esperienze che ne segnano la distanza già irrimediabile dal nucleo familiare. Che infatti lo allontana per venderlo a un altro animale anomalo, la volpe Solomon, usuraia dalla memoria lunga che riesce a dominare sul resto degli abitanti del bosco perché conosce la scrittura, e con essa la memoria dei debiti, e ha ai suoi servizi il gagliardo mastino Gioele, impassibile esecutore di ogni suo ordine. La costruzione dell’identità di Archy incontra qui il suo maestro. Dopo qualche reticenza, Solomon svela alla faina protagonista il segreto della sua anomalia. E quel segreto è la parola di Dio, che Archy imparerà a leggere grazie alle lezioni di Solomon e da cui prenderà coscienza del male, del tempo, della morte. “Per iniziare mi ci vollero alcuni giorni. La tremenda scoperta della morte mi tolse il sonno e mi rese fiacco, lasciandomi annegare in una silente disperazione. Quel che vedevo mi faceva male, quel che sentivo si allontanava in una odiosa eco; il mio rapporto con la vita era scomparso dietro la coscienza della fine. Otis [un fratello di Archy, malato dalla nascita] mi veniva in sogno, e lo pensavo quand’ero sveglio. Ricordavo le sue parole a nostra madre, seduta a tavola con noi. «Morirò perché non cresco».Anche se triste e avvolto nel pianto, non era sembrato così sicuro di quello che aveva detto, non quanto lo era stato Solomon. Rimaneva il capriccio di un cucciolo, una lagna innocente e piena di speranza: anche Otis non credeva nella sua fine. Ora che sapevo il destino di mio fratello, era chiaro anche il mio e quello di tutti. Mai avrei detto di poter morire a questo mondo. Dovendo morire, il mondo mi diceva che non era mio”. Ora. Com’ha fatto Zannoni a compiere il capolavoro di sguazzare indenne per 250 pagine in un mondo narrativo popolato da animali antropomorfi meno favolistici di tanti protagonisti umani della letteratura italiana più recente, e retto dallo spiegarsi di polarizzazioni tutte abissali e tutte dichiarate: animalità-umanità, vita-morte, tempo-scrittura, istinto-riflessione, amore-violenza? E per di più impiegando una scrittura piana, volutamente semplificata, quasi scarna, da parabola? A contare davvero nel romanzo non è tanto la trama, lineare dispiegarsi di una vita che scopre la sua fine, ma sono le esperienze che rendono la trama di quella vita esemplare, pur se vissuta da una faina, possibile. Il dolore, la paura, la violenza, l’eccitazione, la solitudine, l’ingiustizia, l’amore. Le leggiamo attraverso la voce di una faina ma sono tracce per ritrovare la strada verso le domande intorno al senso dell’esistere di ognuno. Del destino di ognuno.“I miei stupidi intenti” è la migliore chiosa al concetto di destino umano, come lo aveva criticato Walter Benjamin: “Il destino appare quando si considera una vita come condannata, e in fondo tale che prima è stata condannata e solo in seguito è divenuta colpevole”. E ancora: “Il destino è il contesto colpevole di ciò che vive”. E infatti Archy scoprirà la sua condanna solo vivendo e scoprirà la sua colpa solo morendo. Non c’è alcuna redenzione nel libro di Zannoni e anche l’approdo alla scrittura, che pare salvare qualcosa della vita altrimenti intangibile di tutti, rimane uno strumento ambiguo, affidato alle speranze fragili dei prossimi condannati, non ancora colpevoli ma già dannati. “Quella notte Solomon mi fece andare avanti con il suo scritto, ma solo di qualche pagina. Non riusciva a prestarmi attenzione, a correggere le frasi che reinventavo al posto suo, e lo vidi farsi cupo. «Va bene così», rantolò, sforzando un sorriso. «Mi rimetto a te». Mi passò la zampa. La strinsi e lo guardai negli occhi, due cerchi arrossati senza forza, gli stessi che una volta mi facevano bruciare, talmente erano vivi. Ancora scorsi un piccolo bagliore, un guizzo di lucidità che mi fece annuire, spaventato, come ad un suo ordine. «Finiscilo per me. Mettici il tuo Amore», disse. «Certo, Solomon». «E brucia quello vecchio. Che non si sappia chi sono stato». Esitai. Se ne accorse, e tentò di stringermi più forte la zampa. Il suo libro era la storia di una vita straordinaria, fatta di cattiveria, sangue, astuzie e inganni. Mi pianse il cuore a sentire quella sua volontà, era come dimenticare un pezzo di mondo. Era un racconto al quale mi ero affezionato, e che aveva colorato i miei sogni più della parola di Dio, perché parlava di noi. «Fallo», disse la vecchia volpe con un sospiro. «Canta solo di un animale, e dei suoi stupidi intenti». Gli dissi di sì. Solomon mi lasciò andare la zampa, si mise a guardare fuori dalla finestra. «Com’è lunga questa notte. Sembra ci voglia con sé per sempre, miserabili, e sciocchi».”