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Il paragone è venuto in mente a molti, spontaneamente. Si è imposto subito, nonostante le cospicue differenze, in forza del numero, “i quarantamila”, della piazza, quella di Torino, e di alcune pur superficiali somiglianze. Una nuova “marcia dei quarantamila”. Una di quelle manifestazioni particolarmente vistose perché occupano il terreno degli avversari, quello della mobilitazione di piazza, e lo rovesciano a favore degli abituali bersagli della protesta. Se si cercasse il modello eminente di quella tattica sarebbe certamente l’immensa manifestazione di Parigi del 31 maggio 1968. Quel giorno, dopo un mese di scontri quasi insurrezionali tra manifestanti e polizia, con la Francia paralizzata da uno sciopero di fatti generale e con tutte le grandi fabbriche occupate, come gli atenei, un milione di francesi manifestò in favore del presidente della Repubblica: il generale De Gaulle. Quell’interminabile corteo sugli Champs Elysées, aperto in dagli scrittori Francois Mauriac e André Malraux, fu il segnale della svolta e annunciò la vittoria del generale.
In Italia però il modello è la marcia dei quarantamila del 14 ottobre 1980, quando, sorprendendo tutti, una massa molto superiore alle aspettative si ritrovò di fronte al teatro Nuovo per protestare contro il blocco della Fiat che durava da ormai 35 giorni. Il ' Coordinamento dei capi e quadri Fiat', guidato da Luigi Arisio, caporeparto delle sellerie con 250 operai sotto di lui, si aspettava un successone, persino 5mila persone.
Ne arrivarono molte di più. Non trovarono posto nel teatro e il Coordinamento decise di far seguire agli interventi dal palco una manifestazione silenziosa, ma con cartelli eloquenti: ' Il lavoro si difende lavorando', ' Vogliamo la trattativa'. Quel corteo era destinato a passare alla storia come la ' marcia dei quarantamila'.
In realtà i partecipanti erano molti di meno: 12mila secondo la questura, 20mila secondo la Fiom, 30mila per la Confindustria. Paradossalmente a far lievitare la cifra fu un quotidiano di estrema sinistra e del tutto schierato con i sindacati impegnati nella durissima vertenza Fiat, il manifesto, nel pezzo firmato dal corrispondente Stefano Bonilli. A riprendere quel numero magico fu poi il segretario della Cgil Luciano Lama e la controparte non vide ovviamente motivo di correggere una stima che andava tutta a suo favore.
Non si trattò di una manifestazione spontanea, come fu fatto credere all’inizio. Era stata invece preparata meticolosamente nelle settimane precedenti dallo stato maggiore della Fiat, l’ad Cesare Romiti e suoi vice Carlo Callieri, che molti anni dopo avrebbe ammesso la regia di Corso Marconi, e Cesare Annibaldi. Ancor più di Romiti, che in realtà pare avesse dubbi sul successo della mossa a sorpresa, il regista du Callieri. Era il duro del gruppo di testa Fiat. A quanto il 13 settembre era iniziato lo sciopero a oltranza dormiva in fabbrica con la pistola carica. Lo avevano in effetti soprannominato ' John Wayne' ed era stato lui a coordinare con Arisio la manifestazione dei capi, con tanto di partecipazione economica, in proporzione mai del tutto chiarita ma certa, dell’azienda. L’idea di trasformare l’assemblea del teatro Nuovo in una marcia, peraltro, fu dello stesso Callieri.
L’esasperazione dei capi, tenuti sotto scacco dalla conflittualità operaia da dieci anni, spaventati dalla minaccia di rappresaglie armate tanto più credibili dopo che Prima linea aveva ucciso, il 21 settembre 1979, il dirigente Fiat Carlo Ghiglieno, era reale. Qualche giorno prima del 14 ottobre c’era stata una prima e più spontanea manifestazione dei capi nello stabilimento di Rivalta. I picchetti erano meno rigidi di quanto non si pensasse allora. Soprattutto la mattina presto erano sguarniti e alcuni capi avevano ricominciato a entrare e persino a portare a termine la produzione di alcune vetture. Ma c’erano anche effettivi respingimenti duri di dirigenti che provavano a forzare i presidi.
La vita per i capi negli anni del contropotere operaio in fabbrica non era stata facile e a farne le spese ne era stato, stando ai suoi racconti, lo stesso Arisio: «M’infilarono dentro i pantaloni l’asta di una bandiera rossa e con quella fra le gambe, fra calci e spintoni, mi costrinsero a camminare alla testa di un corteo. Siccome mi rifiutavo d’impugnare il vessillo, un cireneo comunista reggeva l’asta per me, mentre alle mie spalle un pazzoide due volte licenziato e due volte riassunto mi prendeva a pedate nel sedere con gli occhi iniettati di sangue».
La decisione di manifestare, racconterà in seguito il capo delle sellerie, fu presa dopo che un capo di 48 anni, Vincenzo Bonsignore, era morto di infarto mentre provava ad aggirare i presidi.
Per convocare l’assemblea furono spediti 18mila inviti. Ai presenti, secondo voci diffuse e mai smentite dall’azienda, fu pagata la giornata lavorativa. Alla richiesta di interlocuzione dei sindacati fu risposto che non sarebbero stati ammessi in sala. Il vicesindaco socialista Enzo Biffi Gentili fu accolto a fischi e urli: ' Tornatene in Russia'. Era questo il clima in quel braccio di ferro andava molto oltre la posta ufficialmente in gioco.
Quella vertenza Fiat, che resterà per sempre nella memoria storica come ' i 35 giorni', aveva in realtà due aspetti, uno riguardava le scelte aziendali, l’altro, persino più rilevante, aveva invece una rilevanza politica di più ampio respiro: si trattava di chiudere con una battaglia campale il lunghissimo ciclo di agitazioni operaie che proseguiva sin dalla primavera del 1969.
Era una guerra e come tale la interpretava Romiti e si era attrezzato ad affrontarla, co- amministratore delegato insieme a Umberto Agnelli sino al 31 luglio 1980, poi ad unico. L’offensiva era stata preparata a lungo e meticolosamente, come ha raccontato con dovizia particolari lo stesso Romiti a Giampaolo Pansa nel libro- intervista Questi anni alla Fiat. Un anno prima, nell’ottobre del 1979, 61 operai tra i più attivi nei conflitti sindacali alla Fiat erano stati licenziati con una motivazione volutamente molto vaga, ' comportamenti non consoni alla civile convivenza nei luoghi di lavoro'. Si alludeva a comportamenti violenti ma anche al sospetto, infondato tranne che per 4 casi, di far parte delle organizzazioni armate.
Quei licenziamenti, spiegherà poi Romiti, erano un test fondamentale. Se fossero passati sarebbe stato il segno che si poteva azzardare un attacco al sindacato su vasta scala. Per questo la Fiat aveva lavorato di fino, individuando solo nomi che non potessero essere difesi per motivi umanitari, come genitori anziani a carico ecc. Il licenziamento passò, secondo Romiti, smentito però da Bertinotti, con una sorta di tacita complicità da parte di Lama.
L’anno seguente arrivò puntuale l’affondo, deciso dalla Fiat in netto contrasto con il potere politico, che temeva l’esplosione di una nuova conflittualità operaia, ma con il pieno e determinante appoggio di Enrico Cuccia e dunque di Mediobanca. Il 5 settembre la Fiat annunciò la cassa integrazione a zero ore per 24mila dipendenti, 22mila operai e 2mila impiegati. I sindacati rifiutarono. L’ 11 settembre la Fiat decise allora il licenziamento secco di 14.469 lavoratori. Il primo licenziamento di massa dal 1956. L’Flm, il sindacato unitario metalmeccanico, dichiarò lo sciopero a oltranza il 13 settembre e si formarono subito quei picchetti ai cancelli contro i quali protestavano ' i quarantamila'.
Il 6 ottobre la Fiat ritirò i licenziamenti e propose invece 23mila casse integrazioni, tra le quali figuravano tutti gli operai politicamente e sindacalmente più impegnati. Era una mossa diplomatica. Tutti, a partire da Romiti, sapevano che quegli operai in fabbrica non sarebbero più rientrati, ma l’immagine ' dialogante' dell’azienda ne usciva molto rinsaldata, col risultato di dividere il fronte avversario. Il Pci torinese, nonostante il noto intervento di Berlinguer del 26 settembre in cui il segretario del Pci si era detto pronto ad appoggiare un’eventuale occupazione della fabbrica decisa dagli operai, era favorevole ad accogliere la proposta. I sindacati insistevano per la cassa integrazione a rotazione. Il ' consiglione' di fabbrica di Mirafiori insisteva per una linea intransigente. Il responsabile del partito per le fabbriche, Piero Fassino, racconterà poi di aver ' cercato di convincere il sindacato ad accettare l’offerta'. Secondo la ricostruzione di Claudio Sabbatini, allora responsabile del settore auto per l’Flm, nella notte tra il 13 e il 14 ottobre l’incontro a Roma tra i segretari dei Cgil, Cisl, Uil e Flm da un lato, Romiti, Callieri e Annibaldi dall’altro, assente il governo che si era dimesso il 27 settembre, si era concluso con un accordo quasi totale sulla cassa integrazione a rotazione. A far saltare quell’accordo fu proprio la manifestazione dei capi. ' Le cose che ci siamo detti fino a questo momento non valgono più perché quello che è avvenuto stamattina a Torino modifica tutto il quadro della situazione', avrebbe spiegato, secondo il racconto di Sabbatini, Romiti dopo essere stato messo al corrente della marcia.
L’accordo fu concluso a quel punto in tutta fretta. Il sindacato, nonostante il verdetto del consiglio di fabbrica di Mirafiori accettò le condizioni della Fiat, i licenziamenti mascherati da cassa integrazione. I leader sindacali furono duramente contestati. Molti operai strapparono la tessera dell’Flm. La sconfitta non fu solo campale ma definitiva. Il sindacato non si riprese più dal colpo. Arisio ricevette i complimenti del presidente Reagan e fu eletto deputato con il Pri e il sostegno diretto di Susanna Agnelli nel 1983. Undici anni dopo a fare le spese lella cassa integrazione Fiat sarà suo figlio, militante Cgil, e l’ex capo commentò allora con una certa amarezza le scelte dell’azienda. Una nube passeggera. Nel 2010 il leader della ' marcia dei quarantamila' si disse pronto nonostante l’età a organizzare una manifestazione simile a sostegno di Marchionne a Pomigliano. Pochi mesi fa, l’ormai novantaduenne ex capo, che ancora sfoggia i baffoni a manubrio che lo rendevano inconfondibile all’epoca dei fatti, riassumeva così quella vicenda: ' Era una marcia per la libertà'.