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Ancor prima di essere trasmessa, la miniserie “Avetrana - Qui non è Hollywood” di produzione Disney+ è già un caso mediatico, in uno straniante gioco di specchi tra cronaca nera e creazione artistica. Il ricorso cautelare d’urgenza depositato dai legali del Comune tarantino e accolto dai giudici ha infatti bloccato la messa in onda.
Eppure, a nostro avviso, proprio quel titolo, insieme alla locandina che pure richiama i codici di certo cinema horror indipendente, sembra invece anticipare la premessa di questa narrazione: il racconto psicologico e fisico di un piccolo luogo che diventa arena tra innocentisti e colpevolisti, e al tempo stesso destinazione turistica spettacolarizzata e deformata dall’infotainment.
Avetrana, fino ad allora borgo rurale incarnazione di un luogo comune che vorrebbe il Salento terra schietta di persone devote al sole dei campi, si trasforma di colpo in un pozzo d’acqua buia vocato al realismo magico, dove ciascuno dei personaggi coinvolti, insieme a inquirenti, operatori dell’informazione, comunità e pubblico, sprofonda nei giorni seguìti al torrido, straziante 26 agosto 2010. E se a quattordici anni dai fatti, gli avvocati del Comune chiedono l’immediata sospensione della serie tv, significa che la verità giudiziaria e il racconto di cronaca non hanno suturato la ferita che la comunità si è un certo senso, coi suoi silenzi, autoinferta.
Il sindaco Antonio Iazzi ha chiesto di poter visionare l’opera, dichiarando di temere che Avetrana e i suoi cittadini possano venire rappresentati come una «comunità ignorante, retrograda, omertosa, eventualmente dedita alla commissione di crimini efferati di tale portata, contrariamente alla realtà». E dunque, nel timore di un ipotetico pregiudizio, e di una possibile rinnovata risonanza mediatica, ricordando lo «sgomento nella collettività», che all’epoca si costituì parte civile contro gli imputati, il Comune è riuscito per ora a bloccare una libera espressione artistica, senza avere al momento prova in immagini di quanto paventato.
Eppure, nel rimbalzo tra dirette romane e regie esterne in Salento, se il territorio non risulta mai avulso dal fatto di cronaca, partendo dal plastico per arrivare alla soggettiva della cantina di casa Misseri, spaventa molto di più la drammatizzazione dell’incompiutezza familiare e sociale di due famiglie e dei luoghi della loro quotidianità. Quanto resta sulla pelle, nella mente e negli occhi, è la semplicità del movente, l’odiosità del delitto.
Le immagini, e i crudeli piani sequenza di giornalisti e curiosi pronti a nutrirsi come avvoltoi delle spoglie di ogni notizia, anche la più fragile, sono importanti per testimoniare che, in quella cittadina di circa seimila abitanti, quattordici anni fa si celebrò un rito collettivo, un sinistro esperimento mediatico, un affresco sociale ibridato con la pornografia della morte. Ma proprio per non dimenticare la vittima, il suo ambiente, e la complessa psicologia di indiziati e colpevoli, crediamo che “Avetrana - Qui non è Hollywood” vada visto. Come accaduto al pubblico nell’ambito della XIX Festa del Cinema di Roma.
La serie, costruita con grande sapienza, sia nella scelta delle inquadrature che nella scrittura, sensibile, emotiva e diretta, è un prodotto filmico di grande eleganza e durezza, scabro e sincero come il sapore del vino di queste terre. Un unico grande film lungo oltre quattro ore, che con coerenza ciclica nelle prime scene ci immerge nell’esecrabile voyeurismo dei luoghi della tragedia rivelata e si chiude nello sguardo smarrito e sempreverde di Sarah, che viene verso di noi, mentre l’onda vociante di giornalisti e gente comune compie l’ultimo atto di questa tragedia familiare.
La rigorosa e già matura interpretazione di Federica Pala alterna innocenza e curiosità, assenza e voglia di essere amata. Al pubblico, regia e scrittura impongono fin dalla prima scena la dolorosa condivisione di una colpa frettolosamente narrata all’epoca come morbo familiare. La direzione di Pippo Mezzapesa non veste l’abito sdrucito di altre serie tratte da fatti di cronaca nera. La macchina da presa è messa al servizio del vissuto intimo dei personaggi, con crudele essenzialità e senza giudicare.
Avetrana smette di essere luogo e diviene anch’essa personaggio, confluendo silenziosamente in una storia che nasce da quattro punti di vista contrapposti. Racconta il suo tempo di margherite la vittima, Sarah, nelle splendide incoerenze di figlia e negli eterni e semplici sogni di abbracci, dolci di compleanno, mare. Poi parla Sabrina, con parole che escono dal ventre, rivolte all’interno e all’esterno di un corpo, che sprofonda in una rabbia bruna di cioccolato e odio. Balbetta tra le lacrime e i suoi limiti Michele, che rappresenta solitudini e dubbi con primitiva onestà. E taglia e cuce parole come bambole infine Cosima, spesso dicendo più nei silenzi imprecanti, che nelle poche spinte all’affettività.
La tragedia familiare, come nei classici greci, si fa collettiva, e annega nel buio del rancore, del rimorso, dei desideri irrealizzabili. Dunque una narrazione importante per capire come tornare umani, rispettando nel profondo le vittime e con una più elevata comprensione delle radici del male.