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Può sembrare del tutto sproporzionato e quasi irriverente azzardare confronti tra il ‘ 77 italiano e la grande rivoluzione che 60 anni prima aveva rovesciato il
Psecolo e il mondo. Il paragone è certamente impossibile se si guarda alla portata degli eventi. Non così se ci si concentra invece sulla cartografia sociale e politica che il ‘ 77 ridisegna. Il ‘ 77 italiano certifica la fine della lunga fase inaugurata dal ‘ 17 russo, annuncia la fine di quel mondo, l’impraticabilità di quel modello di rivoluzione.
Quello del ‘ 77 è stato un Movimento contro il ‘ 68, segnato dal radicale rifiuto della ossessione partitistica che aveva dato vita ai gruppi della sinistra extraparlamentare, della separazione tra le sfere del politico e del privato. Il ‘ 68, come il 1917, è il passato. Il 1977 è il presente.
Ibotti che nella notte del 31 dicembre congedarono il 1976, anno di elezioni politiche finite con una sostanziale parità tra Dc e Pci, anno che di conseguenza aveva per la prima volta visto il Pci non opporsi a un governo monocolore democristiano e anzi sostenerlo con l’astensione, salutarono il 1977 ma solo sul calendario. Politicamente e culturalmente quello che oggi definiamo “il 77” era cominciato già da un pezzo e sarebbe proseguito ancora a lungo.
A differenza del ‘ 68, quanto l’esplosione era stata pressoché contemporanea in tutta la penisola come del resto in tutta Europa e in mezzo mondo, il cosiddetto ‘ 77 si presentò in momenti diversi di città in città. A Milano era iniziato nell’aprile del 1975, con la settimana di rivolta e scontri seguita alla morte di Claudio Varalli, ucciso da un fascista il 16 aprile, e di Giannino Zibecchi, investito da un gippone della polizia il giorno successivo. Era proseguito con la nascita dei Circoli del proletariato giovanile, la pratica degli espropri nei negozi e nei ristoranti più cari, la teorizzazione del diritto al lusso, sino agli scontri dell’ 8 dicembre ‘ 76 per l’inaugurazione della stagione alla Scala. L’anno seguente, nel ‘ 77 propriamente detto, gli epicentri del Movimento furono Roma e Bologna. L’onda raggiunse gli operai di Torino, i protagonisti principali del decennio rosso, solo nel ‘ 79, con l’ultima grande ciclo di conflittualità operaia alla Fiat.
Può sembrare del tutto sproporzionato e quasi irriverente azzardare confronti tra il ‘ 77 italiano e la grande rivoluzione che sessant’anni prima aveva rovesciato il secolo e il mondo. Il paragone è certamente impossibile se si guarda alla portata degli eventi. Non così se ci si concentra invece sulla cartografia sociale e politica che il ‘ 77 ridisegna, costringendo a depositare nei ripostigli della memoria quella precedente. Il ‘ 77 italiano certifica la fine della lunga fase inaugurata dal ‘ 17 russo, annuncia la fine di quel mondo, l’impraticabilità di quel modello di rivoluzione.
Quello del ‘ 77 è stato un Movimento contro il ‘ 68, segnato dal radicale rifiuto della ossessione partitistica che aveva dato vita ai gruppi della sinistra extraparlamentare, della separazione tra le sfere del politico e del privato, della concezione sacrificale che rinviava la festa rivoluzionaria a dopo la conquista del palazzo d’Inverno di turno, di un’idea della rivoluzione intesa come presa del potere, dell’universalismo egualitario che il 1917 aveva ereditato dal 1789 e di lì era arrivato senza scosse al ‘ 68.
La musica del ‘ 77 era diversa, tanto distante dai movimenti del passato recente quanto la rabbia punk di Anarchy in Uk lo era dalle utopie del rock impegnato della West Coast hippie. In quella lunghissima assemblea permanente che si svolse a Lettere dal 2 febbraio, giorno dell’occupazione della città universitaria, al 17 febbraio, data della cacciata di Lama dall’università e dello sgombro militare della stessa, si parlava davvero di tutto, senza ordine del giorno, senza presidenza, senza tentativi di strutturare il dibattito. Però il tema che appena pochi anni prima sarebbe stato dominante, l’interrogativo su come dare uno sbocco organizzativo a quel conflitto spontaneo, quasi non figurava nell’agenda.
Il Movimento del ‘ 77 guardava al presente, sostituendo all’orizzonte lontano della rivoluzione a venire quello immediato del “qui e ora”. Puntava sulla spontaneità, sulla creatività e sull’autonomia senza inseguire la chimera bolscevica del “soggetto rivoluzionario”. Rompeva ogni barriera tra privato e pubblico, convinto che il “personale” fosse del tutto “politico”. Rifiutava l’universalismo per esaltare le differenze, instaurando il primato di una mitologia “differenzialista” opposta e forse non meno malintesa e pericolosa di quella egualitaria che aveva sin lì tenuto banco. Ma tutto il bagaglio che dal Movimento del ‘ 77 veniva negato e rinnegato, il ‘ 68 lo aveva ereditato dalla cultura dei movimenti rivoluzionari, per come si era definita a partire dall’Ottobre di Pietrogrado.
La rottura del resto era anche più profonda. Gli studenti e i militanti del ‘ 68, anche in questo ereditando una cultura politica antecedente alla stessa rivoluzione russa, identificavano un soggetto sociale rivoluzionario, per alcuni l’operaio- massa, gli operai di linea e dequalificati delle grandi fabbriche, per altri i popoli del Terzo mondo destinati ad accerchiare le roccaforti imperialiste, al quale si rivolgevano pretendendo di mettersene al servizio e spesso mirando a guidarlo e indirizzarlo. Ma era sempre e comunque altro da sé. I ribelli del ‘ 77 sentivano e sapevano di essere loro stessi il soggetto sociale sfruttato e condannato a una vita grama. Erano la prima generazione che speri- mentava sulla propria pelle la fine della società affluente e l’inizio dell’era del precariato e del neo- schiavismo, erano quindi loro stessi il soggetto rivoluzionario. Si spiegano così l’urgenza, la violenza e anche la sostanziale disperazione di un movimento che reagiva mimando la gioia, mascherando l’angoscia sotto le parvenze beffarde e dissacranti degli indiani metropolitani e del situazionismo riscoperto, ma alla fine inevitabilmente arrivando a uno scontro che era violentissimo perché la posta in gioco non lasciava spazio a possibili mediazioni. I ragazzi del ‘ 68 sapevano che, se sconfitti, sarebbero comunque tornati alle loro origini e avrebbero ripreso il loro posto nei ceti medi o medio- alti, come moltissimi hanno effettivamente fatto. Quelli del ‘ 77 erano senza rete e lo avvertivano a pelle. Come in ogni cesura storica, la nettezza del taglio si coglie meglio guardando a ritroso di quanto non si percepisse nel fuoco degli eventi. Gli elementi nuovi e inediti marciavano fianco a fianco con i bagliori estremi dell’epoca al tramonto, tra i quali nessuno era più abbacinante delle Brigate rosse, organizzazione comunista ancora del tutto interna alla logica rivoluzionaria inaugurata dal 1917 e dunque sospettosa e diffidente quasi quanto il Pci di fronte a quello “strano movimento di strani studenti”, come lo definì un fortunato pamphlet dell’epoca.
Sul piano del fronteggiamento politico immediato, il nemico principale del Movimento del ‘ 77 fu il Pci, e lo fu da subito. Il primo febbraio, in piena città universitaria, viene ferito da una rivoltellata fascista lo studente Guido Bellachioma. Il giorno dopo, mentre in piazza della Minerva Walter Veltroni arringa a nome della Fgci alcune centinaia di studenti, migliaia di manifestanti assaltano e incendiano la sede del Fronte della Gioventù in via Sommacampagna, dietro piazza Indipendenza, con l’immancabile scia di scontri con la polizia e con i gruppi fascisti usciti dalla sede in fiamme. Una macchina della polizia in borghese taglia all’improvviso il corteo e viene bersagliata di sassi. Uno dei poliziotti, Domenico Arboletti, esce e senza qualificarsi spara alcuni colpi. Dal corteo rispondono al fuoco, l’agente cade ferito gravemente. Il suo collega esce a sua volta col mitra spianato, ferisce prima Paolo Tommassini, poi Daddo Fortuna che tentava di portare via il compagno ferito trascinandolo con una mano e tenendo con l’altra sia la sua pistola che quella di Tommassini. Dopo la sparatoria il corteo rientra nella città universitaria e la occupa. Il giorno dopo Ugo Pecchioli, “ministro degli Interni” del Pci dichiara: «Collettivi autonomi e fascisti svolgono da tempo un’azione parallela e concomitante, ma non sono due realtà opposte. E’ la medesima logica che li muove, l’odio per le istituzioni democratiche». Per la prima volta l’estremismo rosso non è solo messo sullo stesso piano di quello nero secondo la logica degli “opposti estremismi” ma è direttamente identificato con una forma di fascismo. Nei giorni seguenti il cronista dell’Unità Duccio Trombadori viene “processato” dall’assemblea riunita a Lettere ed «espulso a vita per affermazioni deliranti» dalla città universitaria. Il bando si allarga in realtà anche ai partitini della sinistra radicale che si vogliono eredi del ‘ 68.
E’ in questo clima che si arriva alla folle scelta di organizzare il comizio di Lama nell’università occupata, il 17 febbraio. L’esito di quella provocazione e il seguito renderanno la lacerazione più profonda e incolmabile: gli scontri, il palco abbattuto, il segretario della Cgil messo in fuga con il servizio d’ordine del sindacato mai così plumbeo e torvo, il successivo arrivo delle ruspe a sgombrare l’università e poi, meno di un mese dopo, l’esplosione della capitale rossa, Bologna, in seguito all’uccisione di Francesco Lorusso, i blindati di Cossiga spediti a ripristinare l’ordine dopo 4 giorni di rivolta, la manifestazione nazionale del 12 marzo a Roma, aperta dai bolognesi che scandiscono “Bologna è rossa del sangue di Francesco”, che assalta la sede nazionale della Dc in piazza del Gesù, saccheggia un’armeria sul lungotevere, apre a ripetizione il fuoco sulla polizia, incendia il commissariato di piazza del Popolo.
Non che in precedenza tra Movimento e Pci corresse buon sangue. Ma la critica si era sempre limitata a bersagliare “il revisionismo” del partitone, la sua rinuncia alla via maestra rivoluzionaria. Nel ‘ 77 le cose cambiano: il Pci è individuato come parte integrante dello Stato, sponda politica eminente di quella trasformazione sociale complessiva di cui i ragazzi del ‘ 77 si sentivano, a ragione, vittime e nemici mortali. La deriva che porterà i partiti socialdemocratici a gestire in prima persona la gigantesca riorganizzazione degli assetti sociali che, a partire proprio dalla fine dei ‘ 70, cancellerà le conquiste di un secolo instaurando una sorta di neoschiavismo inizia in quell’anno, così come entra in scena allora, per la prima volta, il soggetto sociale prodotto da quel riassetto. Se a distanza di 40 anni non riusciamo a guardare al ‘ 77 con la stessa distaccata nostalgia che avvolge il ‘ 68 è perché in quell’anno si è presentato, da ogni punto di vista, il mondo in cui viviamo oggi. Il ‘ 68, come il 1917, è il passato. Il 1977 è il presente.