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Ogni movimento ha bisono di una sua mitologia, deve attrezzare il suo proprio calendario, celebrare ricorrenze, allestire liturgie. Nel movimento che spazzò l’Italia per dieci anni e passa mezzo secolo fa il capitolo eroico di quella ricostruzione non priva di verità ma neppure di agiografia fu il primo marzo 1968, il battesimo del fuoco fu “la battaglia di valle Giulia”.
La chiamarono così i giornali del Pci, L’Unità, uscito in edizione straordinaria quando per le strade di Roma ancora risuonavano le sirene della polizia e le celle di San Vitale erano ancora piene di studenti fermato negli scontro della mattinata, di fronte alla facoltà di Architettura, e Paese Sera, che usciva di norma tre volte al giorno e non ebbe quindi bisogno di forzare le rotative con un’edizione speciale.
Anni dopo, ripercorrendo i fatti, Oreste Scalzone, all’epoca uno dei principali leader del movimento studentesco nella capitale, avrebbe adoperati toni dissacranti, segnalando che in fondo la battaglia era stata poca cosa, soprattutto se paragonata a quel che sarebbe poi esploso nelle strade di tutta Italia: «Un’ora scarsa di lanci di sassi e qualche carica contro la polizia. Cosa anche questa modesta ma che ebbe grande impatto».
La narrazione epica in voga negli anni ‘ 70, costruita sulle note della celebre canzone dedicata alla “battaglia” da Paolo Pietrangeli era probabilmente esagerata. La minimizzazione di Scalzone lo è altrettanto. In quella assolata mattina di tardo inverno romano si produsse davvero una lacerazione, quegli scontri durati un paio d’ore nei prati intorno a Valle Giulia segnarono davvero uno scarto, un passaggio d fase, un salto di qualità. In un certo senso non è esagerato dire che il ‘ 68 cominciò quel giorno.
Nell’università di Roma, la più grande d’Italia, la mobilitazione studentesca iniziata nel novembre 1967 a Torino, nella sede delle facoltà umanistiche di Palazzo Campana, e poi dilagata quasi ovunque era arrivata tardi. Mentre le cronache degli sgombri delle facoltà occupate da parte della polizia e delle nuove occupazioni diventavano quotidiane alla Sapienza e nelle facoltà aldi fuori della città universitaria, tra le quali Architettura, non si muoveva una foglia. L’onda d’urto arrivò solo il 2 febbraio ‘ 68, con l’occupazione di Lettere e poi, una via l’altra di tutte le altre facoltà.
L’occupazione si prolungò per un mese esatto, poi il rettore D’Avack si decise a chiedere l’intervento della polizia, o meglio a consentirlo perché una circolare ministeriale diramata dopo le prime occupazioni aveva chiarito che a decidere sarebbe stata la forza pubblica salvo esplicito parere contrario dei rettori. Anno bisestile: l’università fu sgombrata il 29 febbraio. Una manifestazione di protesta organizzata dagli ormai ex occupanti fu caricata nel pomeriggio. Gli studenti si riunirono in serata nella sede della Federazione del Pci, in via dei Frentani, e convocarono una nuova manifestazione per la mattina seguente, con partenza da piazza di Spagna.
Non era la prima volta che i manganelli della celere si abbattevano sulla testa degli studenti. Ai tempi erano corti e tozzi e gli agenti non disponevano dell’armamentario che gli sarebbe stato assegnato in dotazione l’anno seguente, insieme ai nuovi manganelli lunghi: gli scudi in plexiglas, le visiere, l’incentivo ad adoperare senza parsimonia i candelotti lacrimogeni. Pur peggio armati, si erano dati da fare più volte. A Palazzo Campana lo sgombro seguito da immediata rioccupazione e nuova irruzione degli agenti, in una catena infinita, era diventato quasi un rituale. La carica sui cortei di protesta degli sloggiati era altrettanto puntuale, prevedibile, prevista.
A Valle Giulia successe però l’imprevedibile. Gli studenti reagirono, contrattaccarono, scoprirono che strade e parati erano pieni di “armi improprie” e le usarono. Aveva cominciato Massimiliano Fuksas, un passato da giovane neofascista spostatosi a sinistra alle spalle, un futuro da archistar di fronte, ancora avvolto nelle Nuvole. Ben piazzato, provò a forzare il blocco della polizia sulla porta della facoltà da solo poco prima che il corteo in arrivo da piazza di Spagna, qualche migliaio di studenti tra cui molti medi, raggiungesse la scalinata della facoltà.
A riguardare oggi le istantanee di quella non oceanica manifestazione sembra di assistere a un inedito reality: il corteo dei famosi. Immortalato Giuliano Ferrara, che si prese la sua dose di botte, poi sparsi qua e là per il grande piazzale di Valle Giulia, Enrica Bonaccorti, Paolo Liguori, o come si chiamava ai tempi “Straccio”, con i capelli lunghissimi, un paolo Mieli appena meno compassato, Ernesto Galli della Loggia, sì sì proprio il futuro editorialista del Corrierone, un Antonello Venditti in anticipo sui primi accordi, Renato Nicolini, già leader di un’associazione goliardica vicina al Pci, Paolo Flores d’Arcais.
Già innervositi gli agenti ordinarono la carica quasi subito, al primo lancio di sassi e uova. Per quanto negato in seguito per anni, a reggere il primo l’urto furono i fascisti. Caravella, l’associazione studentesca di estrema destra a stretta egemonia Avanguardia nazionale c’era tutta: Stefano Delle Chiaie, Guido Paglia, Adriano Tilgher, Mario Merlino. Quanto a scontri frontali erano più addestrati dei rossi: tennero la linea. La loro presenza fu cancellata peggio che nelle fotografie sovietiche dei funerali di Lenin per decenni. Riconoscere che a valle Giulia i fascisti non solo c’erano, ma erano pure in prima fila nella battaglia sarebbe stato poco conciliabile con la liturgia del caso.
Ma anche il Movimento, la sera prima, aveva deciso di non limitarsi alla fuga e alla resistenza passiva. Arretrati in un primo momento rispetto ai fascisti, si lanciarono poi in una carica contro i caricanti che lasciò davvero tutti sbigottiti. Quando mai si erano visti gli studenti, mica portuali come quelli del ‘ 60 a Genova, oppure operaiacci come quelli di piazza Statuto a Torino nel ‘ 62, caricare gli agenti, usare rami e bastoni contro i gipponi, tenere botta di fronte alle cariche?
Ancora quella mattina gli striscioni del corteo in marcia verso valle Giulia esaltavano il “Potere studentesco”. Il Movimento bersagliava l’università, le baronie, l’autoritarismo accademico e poi, di conseguenza, la struttura complessiva del sistema. Da Valle Giulia in poi dall’altra parte della barricata ci fu direttamente lo Stato.