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Con il comunismo cucito addosso - una identità familiare e comunitaria, più una confessione religiosa che una fede - e un mondo di fuori ostile, aggressivo, irrigidito nella guerra fredda, l’adolescenza di Massimo nella Roma degli anni Cinquanta è una battaglia. I genitori lo spingono a iscriversi a un istituto tecnico, al Galilei a via Conte Verde. Il Galilei ( alla cui progettazione ha lavorato anche Marcello Piacentini) ha un ruolo importante nella nascita dell’istruzione superiore tecnico- industriale all’epoca del fascismo a Roma: nei lavori di edificazione fra la fine gli anni Venti e gli anni Trenta furono coinvolti anche gli studenti.
«Nel 1951 mi mettono lì, dentro c’era un professore che era della nostra sezione e che ci incoraggiava ad andare e fondare il gruppo Fgci». A scuola Massimo fa propaganda politica. La guerra di Corea è in corso dal 1950, gli Stati Uniti con altri contingenti combattono il regime di Kim Il Sun sotto l’egida Onu. L’antiamericanismo è già penetrato in profondità nella sinistra italiana e per Massimo è un impegno quotidiano. «Anche i miei un po’ mi istigano a ribellarmi per il fatto che mi è stato imposto l’inglese come lingua straniera, a ribellarmi all’imperialismo anglofono. Entro in conflitto duro con l’insegnante di inglese, mi rifiuto di studiare, becco sette in condotta. Finisco per entrare nel nucleo di quelli che fanno solo casino, mi sospendono. C’erano professori che odiavano i comunisti. Me ne hanno fatte di tutti i colori. Gli avversari dei comunisti erano altrettanto ottusi dei comunisti. Come al tempo del fascismo, mettevano in galera mia madre perché volantinava contro la guerra di Corea. Puoi mettere alle Mantellate una che dà i manifestini?
Queste cose certo non mi aiutavano a mettere in discussione la mia identità comunista, anzi la indurivano, la radicalizzavano. Ho perso due anni di scuola».
Nel giugno del 1952, il generale Ridgway, comandante supremo delle truppe dell’Onu in Corea è in visita a Roma. Ridgway è soprannominato il “generale peste”, gli americani in Corea sono accusati dell’uso di armi batteriologiche, di aver diffuso il bacillo della peste. Li accusano i Partigiani della pace.
I Partigiani della pace nascono nel 1949, ne fanno parte fra i tanti il premio Nobel Joliot- Curie, Picasso, Aragon. «In realtà, quando si sono aperti gli archivi di Mosca, nell’agosto del 1991, la rivista Ogonek, il direttore era Korotich, ha pubblicato documenti che rivelavano come i sovietici avessero programmato punto per punto la disinformazione sulla guerra batteriologica. Quando Ridgway arriva a Roma, il corteo di macchine del generale era all’Appia. A Re di Roma, poi a Porta San Giovanni la strada era bloccata da chi non voleva il “generale peste” e lì intervenivano i carabinieri in modo molto duro, con il calcio del fucile. La stampa riporta l’arrivo del generale in una Roma blindata, la tensione è fortissima, ragazzi che preparano lanci di volantini vengono arrestati ( è quel che capita a un giovanissimo Renzo De Felice, lo racconta Pietro Melograni in Renzo De Felice, Studi e Testimonianze
edito da Edizioni di storia e letteratura nel 2002). In modo grossolano, dall’altro lato, L’Unità cerca di arruolare Steinbeck ( capace di critica sociale molto dura ma certo non comunista) che in quei giorni è a Roma, tagliando un suo articolo fino a render- lo incomprensibile e facendosi smascherare dallo scrittore sul Tempo ( la vicenda è raccontata da Mario Canali nel primo fascicolo del 2009 di Nuova rivista storica).
«Pochi giorni fa - Massimo riprende a raccontare - c’è stato il compleanno di Kim Il Sun: la coreografia di regime, le persone ridotte a parte di un mosaico, l’esaltazione delle armi, delle uniformi, di tutte le decorazioni militari. Questo risultato si poteva prevedere: nelle riviste che arrivavano a casa mia oltre sessant’anni fa si vedevano delle immagini che mostravano il culto della personalità spinto fino alla divinizzazione.
Venivano diffuse in Italia da parte di un partito che si diceva progressista. Si vedeva Kim Il Sun in un’atmosfera soffusa che riceveva una pistola dalla madre vestita di bianco. Kim Il Sun era un coreano che aveva la cittadinanza sovietica. È Stalin che lo mette a capo della Corea del Nord, quando alla fine della guerra la Corea viene divisa. Picasso fa un quadro, la composizione è quella stessa del ‘ 3 maggio 1808’ di Goja, e Picasso mostra i militari delle truppe dell’Onu che fucilano donne incinte e bambini in Corea. Non lo metto in dubbio, i militari del Sud saranno stati criminali, ma quel quadro lì aveva una funzione pro Stalin, pro Mao, pro Kim Il Sun. Era all’interno della cam- pagna dei Partigiani della pace. Anche noi eravamo soldatini, parte dell’armata».
Massimo mi racconta che lui e gli altri ragazzini della Fgci in quegli anni venivano mandati alle prime dei film sovietici, «per esempio al Barberini, ci compravano il biglietto per vedere, chessò, I cosacchi del Kuban; erano film che mostravano l’Unione sovietica come un paradiso. Doveva risultare che c’era gente che andava a vederli».
Ragioni di conflitto, ragioni di perplessità continuano a sorgere: il 1953 è l’anno dell’intesa con il Movimento sociale italiano. Pci e Msi condividono l’ostilità sulla cosiddetta legge truffa. Massimo mi racconta dell’arrivo del dirigente missino Caradonna in sezione. Ma non è la sola occasione in cui si ritrovano accanto ai missini: «Facevamo le manifestazioni per Trieste italiana insieme».
Le tensioni fra Stalin e Tito producevano contorcimenti nei militanti comunisti che all’epoca Massimo accettava come fossero naturali, ma che da qualche parte nutrivano un’inquietudine. «A casa mia poi era in corso un conflitto sui temi sindacali tra mio zio Numa e mio padre, di nuovo mio padre era quello di ferro. Mio padre è sempre stato un sindacalista, negli ultimi anni era segretario dei ferrovieri pensionati. I sindacati facevano capo alla Federazione mondiale sindacale, a un certo punto c’è la scissione perché la Fsm è agli ordini di Mosca.
Quelli che si scindono si fanno chiamare sindacati liberi: nei paesi del blocco orientale, dove c’è la sede centrale della Federazione sindacale mondiale, lo sciopero viene punito duramente come sabotaggio, in certi periodi anche con la pena di morte. Mio zio Numa diceva: vogliono fondare un sindacato, la Uil e voi dite che sono pagati dagli Americani, ma voi siete pagati dall’Unione sovietica ( si riferiva in effetti al partito più che al sindacato). Mio zio Numa poi è rimasto comunista. In Italia c’erano quelli come lui che sono restati comunisti pur non essendo filosovietici. Voi, diceva a mio padre, voi siete finanziati con i soldi sovietici che vengono dalla vendita dell’oro estratto dai forzati nei campi della Siberia».
Nella famiglia di Massimo, nella casa di via Latina, alla Sezione Latino- Metronio, dopo la morte di Stalin, il XX Congresso del Pcus arriva come un colpo. Malgrado il mondo non comunista denunciasse da decenni Stalin, gli omicidi politici, i gulag - dieci anni prima era uscito in Italia Buio a mezzogiorno di Koestler, che segue dappresso lo scivolare di un dirigente sovietico nella morsa di una persecuzione inesorabile e senza senso, dopo essere stato lui stesso un persecutore – il mondo comunista italiano sembra che si avverta strappato via di colpo all’età dell’innocenza. Mentre Togliatti, intervistato da Nuovi argomenti accetta i termini del XX Congresso senza mai rinnegare Stalin del tutto, in sezione Latino- Metronio come nel resto d’Italia, le fratture si fanno evidenti.
«Nel 1956, dopo Chrušcëv, in sezione da noi c’era Peppino Averardi che poi è diventato anche sottosegretario. In quel momento aderiva a una specie di corrente che si chiamava Rinnovamento. Anche Salinari aderiva a Rinnovamento. C’era Di Giuliomaria, un professore di inglese che aveva fondato «Lingua e nuova didattica», a lui davano del trotzkista. Venne Edoardo D’Onofrio che era un collaboratore dei sovietici poi diventato capo della commissione di controllo. All’epoca era segretario di federazione. Quelli che volevano contrastare gli stalinisti furono maltrattati. De Maggi, l’entomologo con cui da ragazzini facevamo passeggiate alla Valle della Caffarella, se n’è andato senza scandali.
Molti miei compagni della Fgci, Talarico, Di Bitonto hanno lasciato. C’era la diffida a frequentare gli espulsi. C’erano persone da noi che non se la sentivano di rompere con il partito perché il partito era la sua gente. Per quelli che venivano da famiglie borghesi è stato più facile. Io che a scuola ero caratterizzato come comunista non avevo dove cercare amici; se eri comunista venivi isolato, ti sentivi sempre più fortemente legato al tuo partito, alla tua identità. Avevi assimilato l’idea della verità di parte. Con mio padre c’erano già contrasti. Mio padre nei discorsi privati era anti- chrušcëviano».
Come per molti, anche per Massimo il 1956 è l’anno spartiacque. Se il XX Congresso di febbraio per molti fu in parte choc, in parte speranza, la Rivolta ungherese di ottobre non lasciò più spazio ai tentennamenti. Nel Manifesto dei 101, che condanna l’intervento sovietico si ritrovano intellettuali italiani all’epoca comunisti, fra gli altri Giolitti e Di Vittorio, Carlo Muscetta, Enzo Siciliano, Renzo De Felice, Luciano Cafagna, Alberto Caracciolo, Piero Melograni, Natalino Sapegno. Per Massimo che allora ha diciotto anno sono fatti che si depositano in profondità. Il Pci, per voce dei suoi dirigenti, si schiera in modo acceso in sostegno dei carri armati sovietici contro la “provocazione” ungherese.
«Ho visto persone che stimavo che cominciano a prendere le distanze. Nella sezione della Fgci quelli che dirigevano venivano da famiglie della borghesia, sono stati proprio loro ad andarsene. Allora, l’accusa era: se ne sono andati perché figli di borghesi. L’estate successiva sono andato in Svezia. Sono andato a lavorare insieme a braccianti ungheresi, che piantavamo tuberi per i tulipani. A noi in sezione avevano detto che la rivolta ungherese era sobillata dai servizi americani e invece là ho visto operai, che non erano stati pagati da nessuno, loro raccontavano quello che era successo. La mia verità di partito si andava sfaldando. Ci si sente traditi, ti hanno raccontato qualcosa che con la verità non c’entra niente».