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Winnie Mandela era il lato oscuro della forza. Per trent’anni ha combattuto contro l’apartheid nel nome dei diritti della maggioranza nera e del marito Nelson, prigioniero politico del regime. lo ha fatto con coraggio e grande passione, ma anche con una spregiudicatezza e una ferocia fuori dal comune. Dopo la fine del segregazionismo si faceva chiamare “la madre della nazione”, ma più che a un chioccia bonaria somigliava a un angelo vendicatore.
Se nella cella di Robben Island Mandela ha trovato forza e saggezza per immaginare e realizzare un Sudafrica multiraziale e riconciliato, l’attivismo di Winnie la trascinava con impeto selvaggio verso il radicalismo violento e lo spirito di rappresaglia. Un tratto che l’ha accompagnata sempre nella sua tumultuosa vita, come il profetico nome “Nomzamo”, che in lingua isiXhosa significa “nata per essere giudicata”. Era una perseguitata e ha deciso di perseguitare i suoi oppressori, senza troppe distinzioni e sottigliezze.
«Un boero, una pallottola!» lo slogan che aveva coniato all’inizio degli anni 80, quando invitava i neri delle township ad uccidere gli afrikaner, anche donne e bambini, un modo per seminare il terrore nella comunità bianca. Era l’eroina dei ghetti e aspirava a diventare la Eva Peron del Sudafrica. Non ci è riuscita perché vittima dei suuoi tratti estremi, di un’inqiuetudine e di una rabbia quasi ataviche.
«Sono il prodotto del mio nemico», amava ripetere, quasi a sottolineare la dialettica negativa della lotta per l’emancipazione, il destino violento di ogni liberatore, il confine spesso invisibile tra resistenza all’oppressione e terrorismo. Aveva anche sposato una tecnica per le punizioni, il famigerato necklacing, o “supplizio del pneumatico”, che consisteva nel mettere un copertone intorno al collo del malcapitato e poi darlo alle fiamme: «Con i nostri fiammiferi accenderemo il Paese», tuonò in un celebre discorso pubblico a Munsieville nel 1985. Questa punizione era per lo più riservata ai neri “collaborazionisti”, la figura in assoluto più disprezzata da Winnie.
Come il povero James Seipei, conosciuto con il soprannome di Stompie Moeketsi; sospettato di essere un informatore della polizia fu rapito da un commando il 29 dicembre 1988 e sgozzato una settimana dopo. Aveva appena 14 anni e a 12 era stato il più giovane prigioniero politico nella storia del Sudafrica. Jerry Richardson, ex amante ed ex guardia del corpo di Winnie la accusa di avergli commissionato il rapimento e poi l’omicidio di Moeketsi.
Il regime razzista di Johannesburg è nel frattempo caduto, Nelson Mandela viene acclamato dalla comunità internazionale e trionfalmente eletto presidente di un Sudafrica libero e democratico, ma il processo alla consorte va avanti e nel 1991 viene riconosciuta la «responsabilità morale» nel rapimento di Moeketsi ma non nell’omicidio per il quale sarebbe stata soltanto «negligente». Viene condannata a sei anni di prigione, poi la pena è ridotta a due anni con la libertà condizionale e al pagamento di una multa. Tra i diversi fatti stabiliti dai giudici, la presenza costante di Winnie durante le torture degli avversari e dei tanti “traditori”.
L’anno successivo il divorzio, dopo 38 anni di matrimonio, due visioni della vita e della politica ormai inconciliabili e un assegno da oltre un milione e mezzo di euro per gli alimenti: «Non è mai entrata nella nostra camera da letto quando ero sveglio», confessò Nelson a un giornale sudafricano all’indomani della separazione. Winnie continua a odiare i bianchi con ogni sua fibra, lui vuole una nazione in pace, lei al contrario è sempre a caccia di nemici, spesso di fantasmi.
Ma sono anche gli anni della conquista del potere, prima è eletta deputata, poi nel 1994 viene nominata viceministra delle Arti della Cultura e della Scienza nel governo presieduto dall’ex marito. Un’esperienza che termina appena 11 mesi dopo, quando è costretta a rassegnare le dimissioni perché travolta da un’inchiesta giudiziaria per corruzione. Nel 2003 un tribunale la riconosce colpevole di 43 reati di frode contro la pubblica amministrazione ed è condannata di nuovo a 4 anni con la condizionale. Da oppositrice a donna di potere, rimane intatto lo spirito selvaggio, ma dalle cronache spuntano le stravaganze, i lussi sfrenati, gli eccessi nella villa di Soweto, una cattedrale nel fango protetta da decine di uomini armati, la “Mandela United Football Club” come veniva chiamata la sua squadra di body guard, la stessa che giustiziò Moeketsi. Sempre più lontana dal vecchio marito, nel 2010 lo accusa di aver accettato il Nobel per la pace assieme al’ultimo leader dell’apartheid Frederik de Klerk e di condurre politiche troppo morbide nei confronti dei «coloni bianchi».
Quando fu convocata dalla Commissione di Verità e Riconciliazione per difendersi da 18 violazioni dei diritti umani e dall’implicazione in almeno otto omicidi, risponde sprezzante alle domande che ritiene «ridicole», liquida i testimoni che l’accusano come «malati di mente» e sbatte la porta sdegnata. Ma quella Commissione non era una corte penale, il suo presidente, l’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, non era un giudice razzista ma un vecchio compagno di lotta dei Mandela.