PHOTO
C’era una volta il Washington Post, baluardo dell’indipendenza dei media, simbolo quasi mitologico del giornalismo investigativo, una testata e un pool di reporter capaci di far tremare la Casa Bianca e rovesciare presidenti. Oggi, lo storico quotidiano fondato nel lontano 1877 rischia di trasformarsi in un megafono patinato di interessi particolari e ben poco limpidi, quelli del suo editore Jeff Bezos e del suo nuovo tutor politico Donald Trump.
È stato lo stesso Bezos a annunciare la svolta con la brutalità di un antico padrone del vapore: le pagine tradizionalmente riservate a editoriali e commenti «dovranno parlare unicamente di libertà individuali e di libero mercato». Nessuno spazio per altre opinioni e altri punti di vista: «Chi vorrà leggere altre opinioni le potrà trovare su altri giornali o media», ha tuonato beffardo Bezos incassando i complimenti dell’ex nemico Elon Musk.
Una forma, paradossale e odiosa, di censura travestita da libertà nella sua accezione più vaga e indistinta quella pretesa da Bezos. Tanto che il responsabile di quella sezione, David Shipley, ha immediatamente rassegnato le dimissioni per non avallare la restaurazione in corso. Lo scorso gennaio era toccato alla vignettista premio Pulitzer Ann Telnaes, che ha lasciato il giornale dopo che un suo disegno proprio su Bezos era stato censurato dalla direzione perché giudicato troppo irriverente. La partenza di Telnaes è stata vissuta come un autentico trauma dai colleghi: quattrocento membri della redazione avevano infatti scritto una lettera all’editore, esprimendo grande preoccupazione sulle sorti del quotidiano e sul suo progressivo allineamento al verbo trumpiano.
C’era da aspettarselo: durante l’ultima campagna elettorale il boss di Amazon aveva infatti impedito alla redazione di annunciare il proprio endorsement per la candidata democratica Kamala Harris, rompendo una consuetudine lunga mezzo secolo nel nome di una “neutralità” strumentale e interessata. La scelta ha provocato un’ondata di abbonamenti cancellati, con una perdita stimata di 200mila lettori in 72 ore. Un prezzo da pagare per entrare nelle grazie di Donald Trump. Lui che durante il primo mandato ne aveva criticato, anche con asprezza, le politiche economiche, il 20 gennaio era a Washington in prima fila per assistere alla cerimonia di insediamento del tycoon.
Immaginiamo per un momento se, negli anni 70, il Post di Katharine Graham e Ben Bradlee avesse ricevuto un simile diktat. Niente Watergate, niente Pentagon papers sulla guerra in Vietnam, niente scandali, niente inchieste pericolose o semplicemente pensieri dissonanti. Il cambiamento è epocale in quanto stravolge la nozione stessa di giornalismo: se Bob Woodward e Carl Bernstein non avessero potuto lavorare alla loro inchiesta Richard Nixon non si sarebbe mai dimesso e la storia americana avrebbe preso tutt’altra piega, tanto per fare un esempio.
Il Post, che per decenni ha combattuto battaglie importanti nel nome della trasparenza e dell’indipendenza editoriale, è diventato oggi uno strumento al servizio del potere, controllato dal secondo uomo più ricco del mondo il cui impero economico si regge su logiche monopolistiche e pratiche lavorative che di libertà ne offrono ben poca. Basta chiedere agli impiegati di Amazon, costretti a ritmi infernali nei magazzini sparsi un po’ ovunque nel pianeta mentre il loro boss predica emancipazione e diritti. L’abbraccio mortale di Trump ha in qualche modo chiuso il cerchio.
La svolta di Bezos impone al glorioso quotidiano della capitale Usa una linea editoriale monodimensionale, riducendo il dibattito pubblico a un esercizio sterile di retorica dove le opinioni non conformi ai precetti “libertariani” non hanno alcun diritto di cittadinanza. Non si può più parlare apertamente di crisi sociali, di disuguaglianze, di conflitti politici. Così il giornalismo, da cane da guardia della democrazia, diventa cane da guardia di un potere che non tollera voci stonate.