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Il paradosso è che il primo Paese moderno ad aver abolito la pena di morte è stato proprio il Venezuela nel 1863: «La legge non può condannare a morte, e nessuna autorità può eseguire una condanna a morte» ribadiva poi con orgoglio la Costituzione chavista del 1999. Eppure nel sistema carcerario venezuelano la morte è un evento quotidiano mentre la vita di un detenuto comune, oltre a contare meno di zero, assomiglia iall’inferno in terra. Sovraffollamento, violenze, soprusi, denutrizione, disidratazione, mancanza di cure mediche, rivolte, scioperi della fame sono solo alcune delle piaghe edemiche degli istituti di pena. Circa una quarantina di penitenziari, ospitati da strutture fatiscenti, quasi sempre ex ospedali, ex scuole, ex caserme, lontani anni luce dai requisiti minimi previsti dall’ordinamento.
E a nulla è servita la riforma carceraria del 2011 che si prefissava di migliorare la vita di prigionieri e secondini avviando un ambizioso piano di ammodernamento delle strutture. Nel corso degli ultimi anni la situazione è addirittura peggiorata e oggi il Venezuela conta oltre 55mila reclusi su non più di 14mila posti previsti.
Tra le testimonianze di questo universo selvaggio colpisce quella dell’imprenditore canadese Stéphan G. Zbikowski arrestato nel 1995 a Caracas per traffico di stupefacenti e spedito proprio nella prigione La Maxima di Carabobo, teatro della tragedia di ieri. Zbikowski, che ha passato tre anni a La Maxima prima di essere estradato in Quebecq, ha raccolto la sua esperienza in un libro pieno di dettagli raggelanti L’enfer derrière les barreaux: «Dormivo tra gli escrementi e l’urina dei miei compagni di cella, una barbarie. Ero l’unico bianco in tutta prigione le guardie mi picchiavano reolarmente, ho rischiato di essere ucciso decine di volte e ho visto decine di persone accoltellate davanti ai miei occhi, il rumore che fa una persona prima di venire accoltellata è qualcosa che non dimentichi mai, non so come spiegarlo, ma quando senti l’urlo della persona colpita da una lama tu già sai che questa morirà».
«Le prigioni del Venezuala sono le più violente del Sudamerica, sono controllate dalla criminalità organizzata e ogni anno centinaia di persone perdono la vita al loro interno», denunciava lo scorso anno José Miguel Vivanco, direttore di Human Right Watch per il latinoamerica. Nel 2016 sono morti oltre 500 detenuti, in gran parte per fatti di sangue ( 70%), ma anche per malattie e incidenti legati alle vergognose condizioni di sicurezza.
In alcuni casi l’incapacità dello Stato di mantenere l’ordine all’interno degli istituti si tramuta in una resa completa al potere delle gang che ormai controllano diverse carceri in tutto il Paese, una specie di legislazione parallela come il carcere di Tocoròn dove i cartelli hanno fatto costruire una discoteca, un centro ippico, una piscina e un ristorante, imponendo, naturalmente, il “pizzo” ai non affiliati. Stessa musica nella prigione di San Antonio che sorge sull’isola Margarita. A San Juan de los Morros, nello Stato di Guárico ( 150 km a sud di Caracas) le guardie rimangono all’esterno del perimetro, i membri delle gang girano tranquillamente armati ( pistole, fucili, mitra ma anche granate) e autogestiscono tutta la vita carceraria, imponendo agli altri detenuti una gerarchia feroce e punizioni indicibili per chi non si adegua.
Come notava il fotografo Oscar B. Castillo, autore di numerosi reportage nei penitenziari venezuelani, aver consegnato di fatto alcune prigioni alle gang ha migliorato la sicurezza interna: «In una delle nazioni con il tasso di criminalità più alto del mondo e con una penuria alimentare che tormenta la popolazione, dentro queste prigioni regna un certo ordine».