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L’avvocato, Roberto Tricoli, offre un prodigio di eufemismo: «La perizia del Tribunale di Palermo è stata lunga e complessa, alla fine si è accertato che i fratelli Niceta non erano affatto pericolosi, che le accuse di aver alimentato l’attività economica con soldi mafiosi era infondata: ma servono correttivi nelle norme sui sequestri di prevenzione, perché il meccanismo non va». E certo che non va. L’attività economica di Massimo, Pietro e Olimpia Niceta, nello specifico una quindicina di accorsatissimi ( un tempo) negozi di abbigliamento tra Palermo e Trapani, è stata incenerita dagli amministratori giudiziari. Ieri la sezione Misure di prevenzione del capoluogo siciliano, ora presieduta dal dottor Raffaele Malizia, ha depositato l’ordinanza di dissequestro. Ha restituito alla famiglia di imprenditori un patrimonio che all’epoca valeva 20 milioni di euro. Peccato che, in 5 anni, sia fallito tutto. Tutto. Non c’è più una vetrina, né un dipendente: solo debiti da quantificare fra i 3 e i 4 milioni di euro. Non li hanno fatti Massimo, Pietro e Olimpia Niceta, no. Loro sono stati estromessi dalla gestione nell’ormai lontano 2013. Fu l’allora presidente della sezione Misure di prevenzione, Silvana Saguto, a ordinare il maxi sequestro.
Adesso Saguto è sotto processo a Caltanissetta con tutta la rete di amministratori a cui era solita affidare le aziende. Su di loro incombe un’ottantina di capi d’imputazione. Ma i danni del “sistema” sono irreparabili. E la conferma viene proprio dalla vicenda dei Niceta, felicemente conclusa per modo di dire.
«Oggi viene restituito l’onore, ai Niceta e ai loro dipendenti, ma non resta nulla delle loro attività», commenta il dirigente radicale Sergio D’Elia. Che ha praticamente reclutato uno dei fratelli, Massimo, come altre vittime dell’antimafia spericolata, nella campagna del partito di Pannella per cambiare le misure di prevenzione antimafia. E lui, l’imprenditore, si è fatto coinvolgere eccome. Ha girato la Sicilia e non solo con le “carovane della giustizia” radicali. Ha portato la propria testimonianza. E oggi la battaglia per cambiare le norme del Codice antimafia costituisce la sua vera ragione di vita. Ma di quel patrimonio fondato addirittura dal bisnonno dei tre fratelli “riabilitati”, restano solo i debiti fatti dall’assai allegra gestione degli amministratori giudiziari.
Come nasce l’uragano che travolge i Niceta? A descrivere la follia della macchina governata fino a pochi mesi fa da una giudice poi radiata dalla magistratura, era stato Massimo Niceta in un’incredibile testimonianza pubblicata sul Dubbio lo scorso 10 aprile. Vale la pena di recuperarne ampie citazioni. «Nel 2009 io e mio fratello Pietro eravamo stati raggiunti da un avviso di garanzia per il reato di intestazione fittizia di beni in concorso con la famiglia Guttadauro. Il procedimento si basava su una serie di intercettazioni e su alcune audizioni di collaboratori di giustizia e, all’esito della naturale scadenza dei 18 mesi di indagini, era stato archiviato in quanto non sussistevano i presupposti per un rinvio a giudizio». Ma, scriveva ancora Niceta, «nel 2013 sulle stesse identiche basi, utilizzando le stesse identiche intercet- tazioni, siamo stati raggiunti da due diversi provvedimenti di prevenzione patrimoniale e personale. Uno, del Tribunale di Trapani, si è concluso con sentenza passata in giudicato, che ci ha dato ragione su ogni punto. L’altro, a firma della dottoressa Saguto, aveva come oggetto il sequestro del nostro intero patrimonio…». La meccanica sembrerebbe dunque questa: dove c’era un appiglio pur vago, pur smentito da precedenti ordinanze di archiviazione, si sequestrava e si affidava a una rete ben nota di amministratori giudiziari. I quali, scriveva sempre Niceta sul Dubbio nell’aprile scorso, «hanno preso un milione di euro in due anni: ben ventisette persone sono state collocate a vario titolo dentro la mia azienda causando la chiusura di quindici punti vendita e il licenziamento di centoventi dipendenti. Quindi il costo della legalità in realtà è questo: togliere il pane a qualcuno e darlo a qualcun altro che se lo mangia». Nessuno per quelle parole si è azzardato a querelare Niceta. Che ricordava d’altronde come «l’amministratore giudiziario nominato per la gestione del patrimonio» fosse «Aulo Gigante, oggi a processo a Caltanissetta, per fatti relativi alla ge- stione della nostra azienda». E in quel processo, Massimo e i suoi due fratelli si sono costituiti parte civile.
Tutto chiaro? C’è bisogno di altro? Ieri Niceta si è tolto via facebook un bel po’ di sassolini dalle scarpe. Su di lui aveva infierito anche la delegazione M5s alla Regione Sicilia, che lo scorso 2 ottobre aveva protestato per il suo ingresso nella sala intitolata a Piersanti Mattarella in occasione di una delle assemblee radicali. Bersaglio di quegli anatemi era stata, con Massimo, un’altra vittima della giostra dei sequestri antimafia, Pietro Cavallotti, che ieri Niceta ha ringraziato così su facebook: «Con lui abbiamo avuto il coraggio di sognare un cambiamento e abbiamo cominciato un percorso che ci ha permesso di dire a tutti cosa succede con le misure di prevenzione» . Sergio D’Elia spiega di essere «felice per Massimo e per il segnale positivo che arriva dall’ordinanza: è da un anno e mezzo che questo imprenditore lotta, anche insieme con il Partito radicale. Si batte contro un sistema in cui le misure di prevenzione sono stabilite con procedimenti privi di contraddittorio, senza possibilità di difesa», ricorda il segretario di Nessuno tocchi Caino. Il “bello” è che nella legislatura appena trascorsa tale irragionevole compressione dei diritti è stata estesa anche ai reati associativi di corruzione. Un’impennata anziché un dietrofront. L’unica è sperare, in effetti, che casi come quello dei Niceta riaccendano una scintilla anche nel legislatore.