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Discorrendo di Mark's Diary, il nuovo lungometraggio del regista sardo Giovanni Coda, – incentrato sulla relazione tra due ragazzi disabili – il critico cinematografico e attore Adriano Aprà lo ha definito «un film sulla esaltazione del corpo in tutte le sue forme». Ciò è senz'altro vero per un'opera che coniuga a una tormentata e vitale corporeità un intento di fondo profondamente intriso di lirismo e denuncia sociale, in un ibridismo formale che non oscura ma anzi esalta le tematiche affrontate.
Nel parlare della scoperta del proprio corpo e della propria sessualità, anche in relazione a uno sguardo esterno, il protagonista di Mark's Diary usa la parola “imbarazzo”. Ritiene che la società non sia ancora pronta a considerare in maniera equanime e inclusiva temi quali l'affettività e la sessualità dei disabili?
La società pare non essere pronta a parecchie “situazioni”, e in questo caso l’utilizzo della parola “imbarazzo” ne sintetizza la totale inadeguatezza.
La voce fuoricampo afferma che «il tempo per noi scorre in modo diverso». L'accento posto sulla corporeità è anche un modo per rappresentare e scandire un tempo diverso, sofferto e personale?
Sì. Nel film, il tempo è rappresentato da una sorta di “countdown” che suggerisce di fare attenzione a come la “normalità” percepisce la “diversità”. Non tutto è scontato quando il nostro corpo tarda a risponderci o non ci risponde affatto. Nel film l’aspetto corpo/ tempo è un punto cardine della narrazione; alla fine credo che allo spettatore si presenti una possibile visione “alternativa” su come si può percepire il trascorrere del tempo della nostra stessa vita.
Quali opportunità le ha aperto l'adozione di un approccio pluristilistico e proteiforme? E quali sono gli artisti – perché di arte totale si parla – che l'hanno maggiormente ispirata?
Arrivando da studi fotografici, impostando l’intera “struttura cinematografica” dei miei film allo stesso modo di un set fotografico, l’influenza maggiore risiede in una rosa di fotografe e fotografi che da sempre mi appassionano. Sono uno studioso dell’opera fotografica di Francesca Woodman, Tina Modotti e Edward Weston, Claude Cahun, Diane Arbus ma anche di Irwin Olaf e Bill Viola; in campo cinematografico soddisfo la mia ricerca nell’opera di Peter Greenaway e in quella di Derek Jarman. In Mark’s Diary è la danza a farla da padrona, la danza sorretta da solide fondamenta scavate nella poetica “epistolare” legata a Frida Kahlo e John Keats, fino ad arrivare ai Depeche Mode e agli Smiths. La colonna sonora composta ed interpretata da Andrea Andrillo ( il soundtrack verrà presentato al pubblico il prossimo maggio) a cui si aggiungono i brani di Cosimo Morleo e Arnaldo Pontis chiude una performance musicale/ coreografica/ narrativa che sostiene l’intero film.
Lei è impegnato in una trilogia sulla violenza di genere. Pensa che valori come la tolleranza e il rispetto siano oggi particolarmente in pericolo o, quantomeno, estromessi dall'attuale agenda politica?
Su questi temi, l’agenda politica attuale pare non avere pagine a disposizione. E questo rappresenta un problema serio. L’attuale classe politica sostiene un’imminente “emergenza sociale”, profetizzando che qualcosa di tremendo stia per accadere in Italia - ma anche nel resto del mondo - e addossando la responsabilità di questo “disastro” a coloro che applicano la cultura dell’accoglienza, del rispetto e della tolleranza!
Meglio invece la ruvidità del disprezzo, della sopraffazione e quello, ancor più pervasivo, della chiusura nei confronti di tutto e di tutti coloro che non siano esattamente inquadrati in quattro elementari parametri, stracolmi di demagogia e propaganda.
Il suo film sul femminicidio, La sposa nel vento, è stato inizialmente bocciato dalla Regione Sardegna. Avverte la lontananza delle istituzioni, specie in rapporto a opere contrassegnate da spiccata denuncia sociale?
Quell’episodio, la bocciatura con tanto di surreali motivazioni sull’essere o non essere il femminicidio un tema identitario per gli artisti sardi, ha definito ( se ancora ve n’era necessità) l’ipocrisia che gravita attorno a progetti in cui la denuncia sociale è diretta, senza filtri e per nulla rassicurante. Sulla carta tutti d’accordo sulla denuncia, ma, all’atto pratico, molti invece d’accordo nel soffocare tutto ciò che sta fuori dai quattro parametri di cui parlavo prima. Tutto deve essere elementare, tutto deve essere predigerito…
La Regione Sardegna, la Commissione che valutò quel progetto, dimostrò che nessun colore politico è immune da coliche demagogiche e da propaganda spicciola. E che soprattutto, per certi versi, sulle tematiche sociali più importanti ( e non solo) le Istituzioni navigano a vista; peggio, sono finite in una secca ideologica che non ha portato né porterà a nulla di buono.
Ci può anticipare qualcosa circa i suoi progetti futuri?
Attualmente ho due progetti in pre- produzione. Il primo è appunto La sposa nel vento sul tema della violenza contro le donne; il secondo porta il titolo di Histoire d’une larme, un film in forma di fiaba che tratterà il tema del fine vita dal punto di vista di una lacrima. «Histoire d’une larme» avrà la precedenza: inizieremo le riprese fra maggio e giugno di quest’anno.