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È sciocco sostenere che l’elezione di Trump sia dovuta all’hackeraggio russo contro Clinton, anche se la sequenza di suoi uomini hanno avuto accertati contatti d’affari con imprenditori e uomini del governo russo lascia di stucco. E comunque l’ombra dell’impeachment è all’orizzonte.
Lyudmila Savchuk lavorava dodici ore al giorno per una paga mensile di cinquantamila rubli al mese, che corrispondono a circa ottocento dollari – un salario tutto sommato discreto in Russia. Il suo lavoro consisteva nello scrivere una cinquantina di pezzi al giorno di puro odio da postare su facebook, su twitter, su YouTube, su Livejournal. Riceveva le istruzioni via intranet, ma a altri le comunicazioni sulle attività quotidiane da svolgere erano comunicate invece per via verbale. Il lavoro era rigidamente diviso per compartimenti – c’era chi si occupava dell’Europa, chi della situazione in Ucraina, chi dell’America. E c’era chi, come Lyudmila, era addetto ai commenti sui giornali, chi postava video eccetera. Un giorno bisognava dire delle angosce che provocava la vita in Europa, il giorno dopo di quanta aggressiva fosse l’America nei confronti della Crimea. C’era chi lavorava con la lingua russa, chi in ucraino, chi in inglese, chi in tedesco. Lyudmila, che era una giornalista freelance e si era “infiltrata”, quando decise, un paio d’anni fa, di andarsene via da lì e scrivere su tutto questo un reportage, aveva trentaquattro anni e era la più “anziana” dentro la sua factory – perlopiù erano più giovani di lei – e viveva a San Pietroburgo, ma era consapevolezza comune che uguali strutture fossero dappertutto a Mosca e in Russia. Il fatto è che su tutto vigeva un’assoluta segretezza: era vietato discutere del proprio lavoro non solo all’esterno, con chiunque, ma anche tra di loro.
Quando si parla del Russiagate, cioè dei diversi possibili coinvolgimenti di questo o quel membro dello staff di Trump in una attività di “intelligenza” con i russi per averne dei vantaggi in campagna elettorale soprattutto nel colpire in ogni modo l’avversaria candidata Hillary Clinton, bisogna partire da qui, dalla “Russian troll army”, l’esercito russo dei troll, che da anni i servizi segreti di Mosca usano per la loro dezinformatsya, la disinformazione, come era chiamata la strategia per manipolare l’opinione pubblica all’epoca del Kgb. Che avrà cambiato nome, e mezzi, ma di certo non l’attività. Per anni, centinaia e forse migliaia di trolls si sono infilati in tutte le reti sociali americane fingendosi americani e bombardando tutti i contatti di post che alimentavano l’esacerbazione delle discussioni su razzismo, diritti omosessuali, immigrazione, legge sulle armi. Si poteva dire una cosa oggi e sostenere l’esatto contrario, con altra identità, l’indomani: l’importante – era questo lo standard di produttività – era che quei post alimentassero le fratture sociali. L’odio.
I capi di Facebook, Twitter, Google, saranno chiamati a rispondere di fronte al Congresso delle evidenti falle delle loro piattaforme. I manager di Facebook hanno intanto fatto sapere che da indagini interne sono riusciti a individuare almeno ottantamila post riconducibili a account russi tra il giugno del 2015 e l’agosto del 2017 che avevano a tema la politica americana. Aggiungono, come a attenuarne la portata di influenza, che quei post sono solo una goccia in un mare di comunicazione, un rapporto di 1 a 23.000. Va però ricordato che se alle elezioni dell’ 8 novembre scorso che hanno incoronato Trump votarono 139 milioni di americani, in alcuni Stati chiave di quella vittoria per l’esito delle presidenziali, come il Michigan e il Wisconsin, la differenza di voti fu minima, rispettivamente undicimila e ventisettemila voti. Sarebbe sciocco sostenere che l’elezione di Trump sia dovuta principalmente all’hackeraggio russo contro Clinton – anche se l’imbarazzante sequenza di uomini nominati dal presidente a importanti ruoli o del suo staff o della sua stessa famiglia, come il figlio, che hanno avuto accertati contatti o d’affari o di interesse con imprenditori e uomini del governo russo lascia di stucco.
Ancora più lascia di stucco sapere dal report “Securing Democracy in the Digital Age” realizzato dall’Australian Strategic Policy Institute che la diffusione virtuale delle bufale può condizionare l’esito di elezioni, e che proprio la vittoria di Trump contro Hillary Clinton è stata influenzata dal flusso di informazioni, spesso false, circolate nelle settimane precedenti ai seggi. Trump è un maestro di bugie, dette con improntitudine.
Poveri americani, stritolati tra fake news e dezinformatsya.