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Più che un’inchiesta giornalistica sembra un servizio di Non è l’Arena: interviste “emozionali”, crescendo di musiche drammatiche, morbosa attenzione per i dettagli e sfacciata a noncuranza dei fatti. Allen v. Farrow, il documentario diffuso a metà febbraio dalla Hbo che rilancia le accuse di pedofilia nei confronti del cineasta newyorkese, non aggiunge infatti nessun elemento concreto alle inchieste che da tempo lo hanno prosciolto. Ma gioca con le corde dell’emotività per colpire al cuore il pubblico, con lo scopo manifesto di demolire, pezzo per pezzo, la reputazione del regista, descritto come un degenerato con l’ossessione per le ragazzine. Non ci sono prove plausibili per sostenere che Allen sia un maniaco? Poco male: basta mettere in luce i suoi comportamenti “ambigui”, montare insieme spezzoni di interviste e scritti personali in cui emergano stranezze, insinuare la colpevolezza per consegnarlo al più spietato dei tribunali: quello del popolo. Gli autori, che non sono giornalisti, spiegano che il loro lavoro non pretende di portare il regista a giudizio (ci mancherebbe) ma di denunciare il «sistema», ovvero l’ambiente tossico di Hollywood, fucina di predatori sessuali protetta dalla cortina dell’omertà. Sarà. Riassumiamo brevemente la vicenda. Nel 1992 Woody Allen e la moglie Mia Farrow si separano; lui ammette di avere una relazione con la 22enne Soon-yi Previn, figlia adottiva dell’attrice e del precedente marito, il direttore d’orchestra André Previn. Una rottura traumatica per la Farrow che a quel punto intraprende una furibonda battaglia legale per l’affido dei figli. È nell’agosto dello stesso anno che Allen, secondo il clan Farrow, avrebbe molestato la figlia Dylan, che all’epoca aveva sette anni. Il “luogo del delitto” la casa di campagna nel Connecticut dove Woody era andato in visita proprio per discutere con l’ex moglie. Nel documentario Hbo viene mostrato il video in cui Mia Farrow “interroga” la figlia ancora piccola sulle molestie ricevute dal padre e poi Dylan ormai donna che denuncia Allen, affermando tra lacrime e singhiozzi di essere stata toccata nelle parti intime nel granaio della residenza. Il video delle confessioni di Dylan, girato dalla Farrow poche settimane dopo il presunto fattaccio è un momento di rara violenza e di autentica miseria umana. Accuse pesantissime che però nessun procuratore statunitense ha mai ritenuto sufficienti per aprire un fascicolo giudiziario. In compenso sul caso ci sono state due inchieste indipendenti e molto dettagliate, una del reparto di psicologia dell’ospedale di Yale, un’altra dei servizi sociali di New York: entrambe hanno escluso che Dylan Farrow abbia subito le molestie del patrigno, sostenendo al contrario che la bambina sia stata indottrinata scientemente dalla madre e che oggi sia convinta di essere stata effettivamente vittima di abusi sessuali. L’esito delle due inchieste viene citato rapidamente dal documentario per cautelarsi da eventuali querele per diffamazione, ma è un elemento del tutto sconnesso dalla trama del racconto. Che invece ruota tutto attorno alle “perversioni” di Allen. Si insinua che la relazione con Soon-Yi (i due oggi sono sposati da oltre 25 anni) sia iniziata quando la ragazza era ancora minorenne, ma non si esibisce nessuna prova. Si citano le celebri polaroid con le nudità di Soon-Yi scattate da Allen e scoperte dalla Farrow per suggerire al pubblico con che razza di degenerato abbia avuto a che fare. Sfiorando il ridicolo si arrivano persino a citare i cosiddetti “Allen papers”, ossia la collezione di manoscritti personali o che tre anni fa il regista ha regalato all’università di Princeton, affermando che nelle sue sceneggiature e nelle bozze dei suoi racconti le protagoniste femminili sono ragazze molto giovani che hanno relazioni con uomini molto più vecchi di loro. «Comportamenti inappropriati» per citare le parole della scrittrice Priscilla Gilman che una volta avrebbe visto la piccola Dylan «succhiare il pollice del padre» (sic). Intrecciando fiction e realtà si crea così una narrazione da psico-polizia in cui la verità e i fatti diventano un inutile orpello, una narrazione a tesi che rifiuta ogni confronto critico e che porta dritta a una sola conclusione: quell’uomo è un mostro. Peraltro nessun diritto di replica: Allen non è mai stato intervistato, compare soltanto in alcuni spezzoni video di archivio e nelle registrazioni dell’audiolibro della sua ultima autobiografia A proposito di niente. Neanche Moses Farrow, altro figlio dell’attrice che ha sempre accusato la madre di aver manipolato la sorella Dylan solo per vendicarsi dell’ex compagno, non è mai stato sentito dai realizzatori di Allen v. Farrow che invece hanno dato tutto lo spazio alla voce “colpevolista” di Ronan Farrow, figlio naturale di Mia e, guarda un po’ collaboratore della Hbo, per la quale nel 2018 ha girato due documentari.