Non è facile. E fa male. Un altro me è un film potentissimo, doloroso, vero. E si fa fatica ad accettarlo. Non è facile raccontare cosa sia, non è facile mantenere una lucidità critica ed emotiva. Non è facile arrivare fino alla fine. Ma dovete, dobbiamo. Perché Un altro me è un’opera necessaria, perché cinematograficamente è un lungometraggio dalla grammatica originale e lacerante, perché il regista si prende una montagna di responsabilità, morali e artistiche, e non ha sbagliato un colpo.

Il film, che ha inaugurato il Festival dei Popoli nell’autunno scorso, passato al Trieste Film Festival domenica scorsa e che nella prossima settimana sarà visibile nell’ambito del “Mese del documentario” nelle principali città italiane, è uno sguardo impietoso e devastante sugli abusi contro le donne.

Visti, però, guardando i colpevoli. Sì, loro. La banalità del male, la normalità che li attraversa, la meschinità che riconosciamo e magari ci ricorda tanti altri che abbiamo avuto accanto, per minuti, ore e giorni, e abbiamo sottovalutato. E, inevitabilmente, da maschio, ti costringe a osservarti. A vergognarti, anche se con loro non hai a che fare, perché ti rendi conto che forse avresti potuto capire, fermarli. Che forse, un tuo comportamento ti avvicina a loro, perché ne hai tollerato una battuta, un apprezzamento, un comportamento.

Claudio Casazza, però, non si accontenta di un lungometraggio di testimonianze, di montaggio, lineare. No, usa il cinema per impedirci di porre distanza tra noi e loro. Ci porta in quel carcere, in quelle riunioni in cui gli stupratori, i sex offender, provano a essere recuperati. Perché il nostro sistema lo pretende. Ed è giusto, anche se fai fatica ad accettarlo.

Lo fa prendendo delle scelte coraggiose, geniali, significative e significanti. Dopo 200 ore di girato e 2 anni di lavoro ( 4 mesi di montaggio puro). Loro, i maschi che hanno abusato della fiducia, dell’anima, del corpo di donne, sono sempre fuori fuoco. E se sono su un campo da gioco, fuori campo. Le facce che scorgiamo, nel loro lavoro difficilissimo e straordinario, sono quelle degli operatori che ci parlano, che provano ad approcciarli con l’analisi, l’autocoscienza, con un percorso di recupero che li prova: ce ne accorgiamo fissando i loro occhi, assistendo alle loro riunioni, ammirando come si controllino anche di fronte a parole e gesti, alle reazioni più insopportabili.

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E la macchina da presa così diventa discreta, pudica, elegante e allo stesso tempo li spoglia. Tutti: gli spettatori, costretti a non voltarsi dall’altra parte; le vittime, affidate alle parole di lettere e a una sola testimonianza diretta; i colpevoli, nella loro sincerità violenta come i loro atti, sfrontata, ma fragile di fronte a una donna forte, consapevole, che ha superato l’orrore e ha la capacità di fare ciò che tu, che guardi, non vuoi, non riesci. Avere fiducia in loro, sperare che sì, quegli errori possano portare a una vita migliore. Per loro, per chi avrà a che fare con loro. E ammiri quegli operator dell’Unità di Trattamento per autori di reati sessuali del CIPM ( Centro Italiano per la Promozione della Mediazione) che ci credono, non mollano, resistono. Da dieci anni.

Le domande, le risposte, le lettere, ci dicono tutto. Ci dicono che quello che loro hanno tolto alle loro vittime, quegli uomini non l’hanno mai avuto. Sono soli, squallidi, incapaci di provare sentimenti che vadano oltre le loro paranoie, ossessioni, ridicole autoassoluzioni. «Il fatto che una 14enne avesse quel potere su di me mi dà fastidio più del reato stesso», «era una puttanella da discoteca», «puntarle la pistola alla testa mentre la violentavo mi faceva sentire potente» sono frasi che rimangono addosso, fanno male per la naturalezza con cui vengono dette. E Casazza non cede mai alla tentazione di mostrarceli, di farceli odiare e disprezzare. Lui vuole spogliare il maschio in quanto tale, ciò che ha permesso loro, socialmente, di agire indisturbati magari per anni. Come quella famiglia che assolve il colpevole più di quanto faccia lui stesso. Stacca, regolarmente e raramente, su particolari del carcere, degli ambienti, della vita attuale e rinchiusa di chi ha abusato: prigionieri, come le loro vittime.

E senza catarsi ci dice che quel progetto di recupero ha un senso. Non solo nel recupero ( solo 7 dei 248 pazienti seguiti hanno commesso di nuovo un reato), ma come operazione culturale profonda. È un capolavoro Un altro me, perché abbiamo un cineasta che sa mostrarci l’inenarrabile e lo fa con una raffinatezza stilistica fuori dalla norma. E può cambiare molte vite.