Come gridavano gli studenti del maggio francese, per Donald Trump ce n’est qu’un début. Lo ha sbandierato ai quattro venti nel discorso al Congresso, il più lungo mai pronunciato da un presidente degli Stati Uniti, un’ora e quaranta minuti di show in cui ha disegnato i confini ideologici (e non solo) della “sua” America nella ritrovata grandezza. Con la promessa (per alcuni la minaccia) che siamo solo «all’inizio» dell’opera.

Il tycoon ha vantato i precoci record del suo secondo mandato, il moltiplicarsi bulimico di iniziative, con l’approvazione di oltre 100 decreti presidenziali e più di 400 azioni esecutive. I tagli draconiani alle spese federali, ai programmi di assistenza sociale, i dazi imposti a Canada, Messico e Cina, le deportazioni di immigrati e soprattutto la ricollocazione internazionale degli Usa segnata dal grande feeling con il Cremlino e dalla brusca interruzione degli aiuti militari all’Ucraina di Zelensky (Washington ha sospeso anche la cooperazione con l’intelligence di Kiev).

«Il primo mese della nostra presidenza è stato quello di maggior successo nella storia di questa nazione», giura The Donald. E quelle che sembrano solo delle spacconate, della propaganda a buon mercato, si stanno rivelando soluzioni concrete, come l’occupazione della Groenlandia che «prima o poi farà parte del territorio americano» o del canale di Panama che sarà gestito dal gigante finanziario Blackrock.

Trump si è presentato come il leader di un movimento quasi rivoluzionario che ha l’intenzione di ripristinare non solo l'ordine economico, non solo la forza bruta nelle relazioni diplomatiche, ma anche il «buon senso». È un’espressione impiegata spesso, quasi a mitigare e a giustificare la brutalità dei suoi propositi. Nella feroce campagna contro la cosiddetta cultura woke il buon senso si oppone alle politiche di inclusione delle minoranze, alle discriminazioni positive, alla tutela dell’uguaglianza nei diritti civili, bollate come fanatismi fuori dal mondo: «Sono una forma di tirannia».

Diverse e pesantissime le bordate al suo predecessore Joe Biden, a cu non rende nemmeno l’onore delle armi, definito «il peggior inquilino della Casa Banca di sempre», accusato di ogni male, anche dell’impennata del prezzo delle uova dovuta in realtà a un’epidemia di influenza aviaria, e da cui avrebbe ereditato «una catastrofe economica».

La ricetta per restituire prosperità al Paese è un marchio di fabbrica del Trump-pensiero: deregulation, sgravi fiscali sui patrimoni, detassazione degli straordinari e colossali sforbiciate alla spesa pubblica affidati all’amico Elon Musk citato e ringraziato più di una volta durante lo speech. Il discorso, tuttavia, non è rivolto solo agli americani, ma anche ai rappresentanti repubblicani al Congresso, che da giorni trattano sulla legge di bilancio.

Con il termine ultimo fissato per il 14 marzo, Trump ha lanciato un avvertimento sottile ma deciso, incitando Parlamento e Senato a risolvere la questione prima che una nuova minaccia di shutdown paralizzi l’amministrazione federale. La tensione tra le correnti politiche interne, tra le parole di Trump e quelle dei suoi alleati repubblicani, è palpabile, tuttavia nessuno nel Gop ha la forza politica né il carisma personale per potersi opporre al decisionismo del presidente.

Il problema è che anche tra le fila dell’opposizione si fatica a individuare figure in grado di arginare lo tsunami trumpiano. Di sicuro non la senatrice del Michigan Elissa Slotkin scelta dal partito democratico per replicare al discorso fiume del presidente e al quale, suscitando quasi un sentimento di tenerezza, ha contestato di «allontanarsi dalle politiche di Ronald Reagan», e di «penalizzare la classe media». Il senso di impotenza diventa ancora più forte quando il deputato dem del Texas Al Green viene espulso dall’aula per aver mostrato un cartello di protesta che recitava “No King” e “This is NOT Normal”. Insomma un Donald Trump senza freni e soprattutto senza oppositori.