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Donald Trump è il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti, il primo dopo 120 anni rieletto pur avendo fallito una precedente rielezione. Ma è, soprattutto, il primo inquilino della Casa Bianca condannato e in attesa della pena, imputato in svariati altri processi. Un inedito assoluto nella storia dell’intero Occidente.
Ci si interroga su che fine faranno i suoi numerosi processi. Perché nel 2025 la vera sorprendente situazione per la democrazia americana potrebbe essere quella di trovarsi ripetutamente in primo piano sui media il Commander in chief imputato per reati comuni. Anche se Trump aveva già dichiarato in campagna elettorale che una volta presidente avrebbe «fatto fuori in due secondi» il suo prosecutor Jack Smith, che lo ha incriminato come ispiratore dell’assalto a Capitol Hill del 9 gennaio 2021, dopo che per gli stessi fatti Trump era scampato a ben due impeachment.
A processo, i capi di imputazione sono pesantissimi: cospirazione per ostacolare un procedimento ufficiale, ostruzione di un procedimento ufficiale, e cospirazione, con pene che vanno per ognuno dai 4 ai 10 anni. Nell’idea di “licenziare” il magistrato Smith tuttavia Trump trova un autorevolissimo sostenitore nel giudice (repubblicano) della Corte Suprema Clarence Thomas (sì, quello accusato da Anita Hill di arrassment sessuale) che già il primo luglio - in un’opinione concorrente depositata assieme alla sentenza sull’immunità presidenziale sollecitata dagli avvocati di Trump - ha messo in questione proprio Jack Smith: se proprio si deve procedere contro un presidente, cosa mai accaduta prima negli USA, bisogna che lo faccia qualcuno «debitamente autorizzato a farlo dal popolo americano», ha scritto.
E, tra parentesi, è proprio brandendo questa opinione di Clarence Thomas che è stato rinviato sine die il processo contro Trump in Florida, per essersi portato nella sua residenza privata di Mar-a-Lago carte riservate della Casa Bianca, dalla quale era stato appena estromesso da Biden: si cerca un nuovo giudice. Si vedrà se per davvero, una volta alla Casa Bianca, Trump licenzierà quel magistrato: potrebbe non servire, poiché si tratta di un reato federale, e per quanto discutibile il presidente in carica ha il potere di auto- graziarsi.
Mentre per il processo in agenda in Georgia, per aver tentato di estorcere al governatore di quello Stato una manomissione del voto elettorale che aveva visto vittorioso Joe Biden, si tratta di un reato statale: ovvero sul quale non si può esercitare alcun potere federale. La strategia a difesa di Trump ha da tempo puntato la magistrata che ha la responsabilità del processo, accusandola di aver avuto una relazione sentimentale con un giudice della Corte Suprema locale: cosa respinta attraverso un ricorso, ma decisa dal tribunale sottoponendo contestualmente il processo contro Trump a numerosi rinvii. Ve ne saranno altri?
In agenda per il 26 di questo mese ci sarebbe l’udienza per la quale Trump se non fosse stato eletto avrebbe rischiato fino a 4 anni di prigione: quella sul caso Stormy Daniels, e nel quale il capo di imputazione non è aver cercato di pagare il silenzio di un’ex pornostar sulla loro relazione, ma di averlo fatto stornando 130mila dollari da un conto aziendale (reato piuttosto grave negli USA). In questo caso, Trump è già stato condannato da una giuria popolare e il giudice deve solo stabilire l’entità della pena.
Si noti che fino gennaio Trump non è ancora il presidente degli Stati Uniti, ma solo il “presidente eletto”, nel lungo passaggio di consegne operato dal transition team tra l’elezione del 6 novembre e l’insediamento del 20 gennaio. Il giudice però ha fatto sapere, e la sua decisione verrà comunicata il 12 novembre, di voler prima “capire bene” la complessa sentenza con la quale i giudici della Corte Suprema federale (a maggioranza trumpiana, 6 a 3) il primo luglio scorso hanno dato il via libera per Trump alla Casa Bianca.
Può farlo, ha scritto nella sentenza il relatore Roberts, perché nella Costituzione americana non c’è scritto da nessuna parte che un condannato non può correre per la Casa Bianca, concedendo un’immunità in buona sostanza solo per gli atti compiuti nell’esercizio della presidenza, mentre secondo la Corte non esistere immunità per atti non ufficiali. E poiché, aggiunge Roberts, «la distinzione tra atti ufficiali e atti non ufficiali può essere difficile»: si invita i tribunali a ricorrere alla Corte Suprema.
In quel primo luglio alla Corte Suprema federale è stata depositata anche la dissenting opinion della minoranza, con l’allarme lanciato dalla justice Sonia Sotomayor: «È una sentenza che rimodella l’istituzione della presidenza». Perché mentre la Costituzione americana stabilisce una chiara immunità per i membri del Congresso, nulla di simile è detto per la Casa Bianca. Soprattutto «avete fatto diventare il Presidente un Re al di sopra della legge». E il re, per la storia americana, è un tabù assoluto: molte delle architetture istituzionali americane, compreso sistema elettorale per le presidenziali, che in Europa sembrano tanto astruse nascono proprio da questo: dalla storica volontà e paura che gli USA potessero diventare una monarchia, e non una repubblica.
E invece, anche il risultato delle ultime elezioni conferma le preoccupazioni di Sotomayor: con il Congresso e il Senato entrambi a maggioranza repubblicana, negli Stati Uniti sono saltati i check and balances. I poteri di controllo democratico che da sempre bilanciano i poteri della Casa Bianca. Altrimenti, altro che «We, the people…».