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Non sono bastate le risse in aula né le manifestazioni fuori dal Parlamento a fermare la riforma della Costituzione turca voluta dal presidente Recep Tayyp Erdogan. I sei giorni spesi a discutere i 18 articoli da modificare si sono conclusi domenica con l’approvazione del pacchetto. La riforma avrà bisogno di una seconda lettura, in programma da domani, prima di essere sottoposta al referendum già in primavera.
La nuova Costituzione cambierebbe in senso presidenzialista l’ordinamento istituzionale del Paese. Per la prima volta dal 1982, anno in cui la Turchia adottò la Costituzione, sparirebbe la figura di primo ministro e il potere esecutivo ricadrebbe tutto sul Presidente della Repubblica e il suo vice ( o più di uno). Il presidente avrebbe fra le sue prerogative la nomina e la revoca dei ministri, l’emanazione di decreti legge e la possibilità di «interferire e controllare» l’operato della magistratura. Il nuovo capo dello Stato potrebbe essere eletto per due mandati consecutivi, della durata di cinque anni l’uno e non quattro come adesso, e, a differenza di adesso, potrebbe avere legami con un partito politico. Considerato che se passasse la riforma le prossime elezioni si terrebbero in contemporanea con quelle parlamentari del novembre 2019, e che il conteggio inizierebbe con il nuovo presidente, Erdogan rischia di rimanere al comando della Turchia fino al 2029, dopo aver ricoperto il ruolo di primo ministro dal 2003 al 2014 e di presidente della Repubblica da allora. Da qui le paure dell’opposizione e dei manifestanti dispersi con gas lacrimogeno e cannoni d’acqua insieme ai loro cartelli «no all’uomo solo al comando». Voci contrarie si sono alzate anche dalla società civile, come l’appello di 62 ex diplomatici: «La Repubblica turca perderà i suoi requisiti di stato democratico, laico e basato sullo stato di diritto se questa proposta verrà approvata» .
La riforma è passata con 344 voti favorevoli, più dei tre quinti necessari a indire il referendum. La soglia è di 330 parlamentari su 550 e l’Akp, il partito di Erdogan, ne ha 316 che senza l’apporto dei 39 nazionalisti dell’Mhp non sarebbero stati sufficienti. Ben poco hanno potuto fare i repubblicani del Chp e i curdi dell’Hdp, rispettivamente secondo e terzo partito. «Questa riforma esporrà la Turchia a problemi ancora più profondi» ha detto il leader del Chp Kemal Kiliçdaroglu, mentre Selahattin Demirtas e altri 11 parlamentari dell’Hdp non hanno potuto partecipare al voto perché agli arresti con l’accusa di favorire il terrorismo. Anche per questo il partito filocurdo Hdp sta boicottando i lavori parlamentari. La macchina del Sultano si è messa in moto, e da tempo. L’inatteso exploit dell’Hdp nelle ultime elezioni ha solo rallentato il ritmo dell’Akp, che ha trovato nell’alleanza con i nazionalisti la soluzione ai numeri mancanti. Dopo il presunto golpe fallito del luglio scorso si è creato un nuovo clima di repressione, controllo e retorica nazionalista che ha partorito uno stato d’emergenza che non è ancora terminato. In questo quadro è passato, contemporaneamente alla riforma costituzionale e un po’ sotto traccia, un decreto legge sul diritto alla cittadinanza. Erdogan e i suoi hanno rispolverato un vecchio decreto della giunta militare degli anni 80 ( che proprio l’Akp osteggiò e abolì nel 2009) secondo cui le persone che si trovano all’estero e sono indagate dalla magistratura turca perdono il diritto alla cittadinanza se non fanno rientro in patria entro 90 giorni. Nello stesso decreto, chiaramente rivolto contro Fetullah Gulen, il nemico giurato di Erdogan, si prevede il diritto alla cittadinanza per gli stranieri che abbiano acquistato proprietà in Turchia dal valore di almeno un milione di dollari, abbiano fatto investimenti per due milioni, conservino almeno 3 milioni nelle banche turche o abbiano creato 100 posti di lavoro. Oltre che «prevenire un altro colpo di Stato», probabilmente Erdogan spera che queste nuove misure lo aiutino a uscire da una recessione feroce e galoppante.