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Una sconfitta pesante, la prima da quando il “sultano” Erdogan ha iniziato, nel 2003, a regnare incontrastato sulla Turchia. L’opposizione repubblicana ribalta a sorpresa i sondaggi della vigilia e dà un senso tutto diverso alle elezioni municipali, conquistando le due città più importanti del Paese: Ankara e Istanbul, due storiche roccaforti del Akp, il partito di Erdogan che grazie al voto delle zone rurali e dell’Anatolia resta comunque la prima formazione del paese con il 45% dei consensi e governando il 55% dei comuni.
Nella capitale Ankara il candidato del Partito Popolare Repubblicano (Chp) Mansur Yavas ha ottenuto il 50,9 per cento dei voti, superando di tre punti il rivale Mehment Ozhaseki e permettendo all’opposizione laica di tornare al governo della città dopo 25 anni.
Ma ancora più clamoroso il risultato di Istanbul, metropoli da 16 milioni di abitanti e polmone economico del paese dove il candidato del Chp Ekrem Imamoglu è avanti di un soffio al più blasonato Binali Yildirim, presidente dell’Assemblea nazionale, ex premier e fedelissimo di Erdogan. Tra i due uno scarto dello 0,2% a favore di Imamoglu: «Vincere qui significa conquistare milioni di cuori, ora il mio obiettivo è lavorare bene. Prometto un linguaggio politico diverso» ha dichiarato. Nonostante i 15mila voti di differenza è possibile che l’Akp non accetti il risultato e faccia ricorso per un riconteggio come avevano ventilato diversi suoi esponenti nella serata di ieri.
Ma non è detto che il riconteggio favorisca Erdogan visto che i primi rapporti degli osservatori europei su un campione di 140 seggi parlano di «vistose irregolarità» a favore del Akp. Secondo il capo delegazione Andrew Dawson gli osservatori «non sono convinti» del fatto che il clima sia stato democratico, soprattutto per la disparità di forze in campo in campagna elettorale e in termini di presenza nei media, per le pressioni sulla stampa e le interferenze del sistema giudiziario, ma soprattutto le limitazioni della libertà di espressione. «La campagna elettorale non si è svolta in maniera paritaria, nè giusta e a volte la legge non è stata rispettata. Le risorse e le istituzioni non si possono comportare come fossero organici a partiti», ha concluso il commissario.
Le ragioni di questa forte battuta di arresto di Erdogan, più che nella deriva autoritaria del regime che ha segnato la faste successiva al tentato golpe del 2016. sono da ricercare nella feroce crisi economica che da tempo ha colpito il paese.
Da quando la scorsa estate la lira turca è stata svalutata del 30% la crescita si è praticamente fermata: basti pensare che nel 2017 superava il 7% ( la più elevata dei grandi paesi) e quest’anno non andrà oltre l’ 1,1%. Al contempo la produzione industriale è in caduta libera, la disoccupazione di nuovo in crescita e il tasso d’inflazione nel mese di marzo ha sfiorato il 20%. Di conseguenza i prezzi volano, specie quelli dei prodotti alimentari di base come le verdure, mentre nei supermercati alcuni prodotti iniziano ad essere razionati per la penuria.