Adesso è ufficiale: Donald Trump non può trattare tra Mosca e Kiev. Anzi: non deve trattare, non ha la minima legittimità per farlo. Lo ha dimostrato con l’indegna sceneggiata trasmessa in diretta mondiale. Non c’è bisogno di ulteriori prove, il verdetto è scritto: Trump è fuori gioco. Ed è un bene che sia così.
E ora? Ora serve uno scarto improvviso, qualcosa che rovesci il tavolo e ridisegni la scacchiera. Se Trump è al limite dell’eversione politica, un elefante politico già imbalsamato nel suo stesso gigantismo retorico, allora l’Europa deve riprendersi il centro del palcoscenico, deve infilarsi nella breccia, deve osare. Subito.
Ma non l’Europa paralizzata dalle proprie liturgie bizantine, non l’Unione Europea intesa come consesso flaccido e riottoso, incagliato nei propri meccanismi burocratici e nella presenza ingombrante di paesi che si ostinano a sbirciare Putin con occhio complice.
No, serve un’Europa snella, selettiva nel senso più politico del termine: quattro, cinque democrazie solide, il cuore antico e ancora pulsante del Continente, capace di fare ciò che l’America trumpiana non può e non vuole fare. E allora quell’Europa apra subito un dialogo con Putin e tratti in nome dei valori per i quali è nata: libertà, democrazia, giustizia.
Questa è l’occasione. Ma forza, coraggio e unità non si comprano a peso, non si evocano con un decreto. Riuscirà l’Europa a sottrarsi al proprio eterno destino di grande promessa non mantenuta? Saprà parlare con Putin senza piegarsi a lui, senza smarrire se stessa? Qui si gioca tutto.