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Non bastava l’avvitarsi di botta- risposta e l’alzarsi dei toni con la Corea del Nord, con il pericolo di un conflitto nucleare che da fatto impossibile comincia a essere percepito come plausibile. No, Trump doveva andarsi a capare quel fazzoletto di terra che è probabilmente il più sensibile luogo geo- politico della terra: Gerusalemme. Riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele – oltre che confermarvi il trasloco dell’ambasciata americana da Tel Aviv – è come voler dare alle fiamme cataste di legna accumulate.
Di tutte le questioni che si attorcigliano intorno al conflitto israelo- palestinese, nessuna è sensibile come lo status di Gerusalemme. La città santa è stata al centro di sforzi diplomatici per decenni. Perché la questione di Gerusalemme è la meno trattabile nel conflitto più intrattabile del mondo. Entrambi, israeliani e palestinesi, rivendicano Gerusalemme come capitale dei loro Stati, presenti e futuri, ed è una condizione che non può essere messa in discussione. E non è che la cosa riguardi solo loro. Nella Città Vecchia di Gerusalemme ci sono i luoghi più sacri dell’ebraismo e la terza moschea più sacra dell’Islam, oltre che luoghi di straordinario significato religioso per i cristiani, il che significa che spostare anche solo una pietra di centimetri è un fatto che tocca il cuore e la fede di miliardi di persone.
Forse vale la pena ricordare che la seconda intifada – che per più di due anni seminò morte, di israeliani per mano di kamikaze palestinesi, e di palestinesi per mano dell’esercito israeliano – iniziò con una passeggiata di quarantacinque minuti nell’autunno del 2000 di Ariel Sharon, allora leader dell’opposizione, in quel luogo che rappresenta il cuore del conflitto, il luogo che i musulmani chiamano la moschea Haram al- Sharif e gli ebrei Monte del Tempio. E forse vale la pena dare il giusto peso alle parole dell’ambasciatore palestinese a Londra che ha definito le intenzioni di Trump come «una dichiarazione di guerra a un miliardo e mezzo di musulmani».
Qualsiasi amministrazione americana si sia succeduta, più o meno lontana da Israele, qualunque diplomazia del mondo si sia insediata lì, ha sempre usato ogni riguardo, ogni cautela, ogni attenzione per non suscitare conflitti. Ora arriva Trump, indifferente di principio a ogni retaggio storico, pure riferendosi a un luogo dove la storia è tutto, che sembra aver trovato il vento – dopo il taglio delle tasse per i ricchi, dopo l’ap- provazione della Corte suprema per il suo muslim- ban – e vuole dar seguito a una delle sue promesse elettorali, quando riscosse tutto l’appoggio di Netanyahu. È quello che sembra gongolare di più, Netanyahu; ieri, pur senza menzionare la questione di Gerusalemme – per diplomazia, in attesa del discorso definitivo di Trump – ha detto: «l’identità storica e nazionale di Israele sta ricevendo riconoscimento, soprattutto oggi». Dal Segretario di Stato, Tillerson, e dallo staff della Casa Bianca arriva il monito a considerare il discorso di Trump nella sua interezza, e si sottolinea che la decisione di Trump di rispettare la sua promessa elettorale «rafforzerà la sua credibilità nel mondo, come una persona che rispetta la sua parola, non si fa intimidire dalle minacce e non si sottomette alle pressioni internazionali». Si assicura che «il presidente americano comprende le aspirazioni palestinesi».
Comprende le aspirazioni dei palestinesi. Per intanto, I’annuncio di Trump ha avuto l’effetto di lasciare il governo di Washington isolato sullo scenario internazionale – ma questo non pare preoccuparlo più di tanto dato che sembra camminare sull’onda del motto «molti nemici, molto onore». Ma il clima politico in Medio Oriente si è immediatamente surriscaldato: le organizzazioni palestinesi hanno subito annunciato «tre giorni di collera» che al momento si sono sostanziati in manifestazioni di piazza a Gaza, durante le quali sono state bruciate bandiere americane e israeliane; Hamas ha minacciato una nuova intifada; le forze di sicurezza israeliane si stanno «preparando» a scontri con i palestinesi a Gerusalemme est ( un territorio prevalentemente palestinese) e in Cisgiordania. Il re Abdullah di Giordania teme che questa storia possa essere «sfruttata dai terroristi per alimentare rabbia, frustrazione e disperazione». Il premier turco Erdogan ha convocato ad Ankara un vertice dei paesi musulmani per discutere proprio della questione di Gerusalemme. In Iran, l’ayatollah Ali Khamenei, custode teocratico, ha dichiarato: «La Palestina sarà liberata. La comunità palestinese e quella musulmana vinceranno». Tutta la tessitura costruita da Obama appoggiando le timide riforme del presidente Hassan Rouhani, e soprattutto l’accordo sul nucleare, si va sfilacciando.
In tanti trovano conforto nel fatto che per spostare concretamente l’ambasciata americana a Gerusalemme devono passare degli anni; bisogna trovare una sede adeguata nella Città santa e soprattutto è necessario dotarla di sistemi di sicurezza eccezionali. In- somma, l’annuncio di Trump potrebbe restare solo tale, dato che nel 2021 scade il suo mandato. Ma stiamo parlando di luoghi e di un conflitto dove tutto ciò che è simbolico acquista una valenza e una potenza terribile.
Persino i russi – finora usciti come gli unici vincitori dal conflitto siriano – sono molto preoccupati. E papa Francesco non si è risparmiato nelle parole. Rimane la questione dell’Arabia saudita. Il principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman, finora identificato da Trump come suo interlocutore nell’area e con cui si dice abbia lavorato il genero, Jared Kushner, per un piano di pace da presentare al presidente palestinese Mahmoud Abbas, ha dichiarato che si oppone al riconoscimento degli Stati Uniti di Gerusalemme come capitale di Israele.
E è paradossale che tocca sperare che i sauditi provino a fermare Trump.