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È un giudice a fermare Trump. Almeno per ora: si tratta di Ann M. Donnelly, del tribunale distrettuale di Brooklyn, a New York. Il magistrato ha stabilito che i rifugiati o altre persone interessate dalla misura arrivati negli aeroporti statunitensi, non possano essere espulsi. Provvedimento adottato come “misura d’urgenza”: secondo la giudice Donnelly rimpatriare le persone fermate nei loro Paesi potrebbe causare “un danno irreparabile”. Con il provvedimento arrivato a meno di 48 ore dal bando firmato dal nuovo presidente Usa, viene dunque sanata la posizione di quegli stranieri provenienti da Paesi a maggioranza musulmana che al momento della pronuncia giudiziaria sono già materialmente atterrati in un aeroporto statunitense. La vittoria è dunque parziale, ma è un riconoscimento per l’attivismo delle associazioni subito mobilitatesi contro il bando, e per le centinaia di manifestanti che da venerdì presidiano i terminal internazionale dei principali aeroporti del Paese. Non una sconfitta, ma un primo inconveniente per “The Donald”, rispetto a una decisione che ha immediatamente isolato gli Usa rispetto alla comunità internazionale: Merkel ha ribadito la sua contrarietà, persino la premier inglese May l’ha criticata e ora Paolo Gentiloni ricorda che l’Italia “è un Paese che non discrimina”. Si calcola che l'ordinanza di emergenza del magistrato interessi tra le 100 e le 200 persone, fermate negli aeroporti Usa o in transito. Con la decisione, il magistrato ha risposto alla denuncia presentata dall'Unione per le Liberta civili (Aclu) in America contro l'ordine esecutivo firmato da Trump, la cui costituzionalità è stata messa in dubbio. “Vittoria”, ha twittato l'organizzazione dopo l'ordinanza. La giudice non ha stabilito se le persone interessate possano rimanere in Usa, né si è pronunciata sulla Costituzionalità della misura, ma ha fissato una nuova udienza per il 21 febbraio, in modo da poter tornare ad affrontare la questione. Si tratta della prima vittoria delle associazioni a tutela dei diritti civili contro Trump. La decisione del magistrato di New York è arrivata sabato sera (nella notte tra sabato e domenica rispetto al fuso orario italiano): una misura temporanea in attesa che la denuncia della Aclu per incostituzionalità venga esaminata nel merito, ma è valida su tutto il territorio nazionale. La giudice ha anche ordinato al governo di comunicare la lista di tutte le persone fermate negli aeroporti in modo che le associazioni possano agire a loro difesa. Anche se la questione è ben lungi dall'esser risolta, in attesa della sentenza di febbraio “è importante che nessuno sarà rimesso sull'aereo”, ha detto Lee Gelernt, avvocato della Aclu, all'uscita del tribunale. Raduni spontanei si erano susseguiti per l'intera giornata di sabato negli aeroporti del Paese per ottenere la liberazione dei passeggeri stranieri fermati al loro arrivo sul suolo americano dai servizi di immigrazione nell'ambito dell'attuazione del decreto presidenziale chiamato “Proteggere la nazione” contro l'ingresso di terroristi stranieri negli Stati Uniti. Ancora prima della sua vittoria la Aclu aveva dato appuntamento al presidente “in tribunale”. La giudice ha applicato l'ordinanza a nome di due iracheni fermati all'aeroporto John F. Kennedy di New York, Hameed Khalid Darweesh, un interprete che ha lavorato per 10 anni per il consolato americano ad Erbil, e un altro arrivato in Usa per riunirsi alla moglie, che lavora per un'impresa di contractor. Per tutto il giorno centinaia di manifestanti avevano manifestato, soprattutto dinanzi al terminal 4 del JFK di New York allo grido “Lasciateli entrare”; altri protestavano dinanzi alla tribunale di Brooklyn in attesa della decisione del giudice. E la stessa scena si era ripetuta all'aeroporto Ohare di Chicago e negli scali di Dallas, Minneapolis, Denver, Los Angeles. A San Francisco, centinaia di persone si erano radunate dinanzi al terminal internazionale, chiedendo la revoca del “divieto ai musulmani”; e avvocati volontari si erano resi disponibili ad aiutare le famiglie dei passeggeri fermati. Il decreto presidenziale, emanato con una firma alle 16:42 di venerdì (ora statunitense), ha sospeso l'ingresso di tutti i rifugiati negli Stati Uniti per 120 giorni (esclusi quelli siriani, fermati a tempo indeterminato) e ha bloccato l'ingresso nel Paese per 90 giorni a tutti i cittadini di sette nazioni a maggioranza musulmana: Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria e Yemen. Ma di fatto ha impedito anche ai possessori di carta verde provenienti dai Paesi interessati di rientrare negli Stati Uniti: sono stati bloccati uno scienziato iraniano che si recava a Boston, un famiglia siriana, uno studente di antropologia a Stanford d'origine sudanese.