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C’è qualcosa di crepuscolare nel confronto televisivo tra Donald Trump e Joe Biden andato in scena la scorsa notte. A partire dall’età dei protagonisti: 150 anni in due, fieri esponenti entrambi della generazione dei boomer, maschi bianchi che, alla soglia degli 80 anni, si contendono la poltrona più ambita del pianeta. Quel confronto ruvido, a tratti sguaiato, quasi sempre sul filo del grottesco è sembrata una rappresentazione plastica del potere che per oltre mezzo secolo è rimasto saldamente nelle mani di una generazione. Una generazione di granito che ancora oggi continua a dettare i tempi della politica mondiale e che si avvicina al canto del cigno senza freni inibitori. Lo dimostrano i toni violentissimi di un di battito che la gran parte dei media d’oltreoceano ha definito «vergognoso» e che sembrava uscito dal soggiorno del Grande Fratello Vip. Mai prima d’ora due candidati alla presidenza americana si erano affrontati con una tale batteria di insulti: «pagliaccio», «bugiardo», «idiota», «cagnolino di Putin»; le interruzioni continue, le volgarità, l’irrilevanza dei contenuti politici hanno dominato gli oltre 90 minuti di duello. I media progressisti dicono che ha «vinto» Biden, quelli più conservatori affermano il contrario, una confusione generata non solo dalla faziosità fisiologica dei vari organi di informazione, ma dalla stesso caotico incedere delle polemiche. Anche il conduttore Chris Wallace di Fox Tv, non proprio un boy scout, è rimasto scosso dal livello, infimo, del confronto. Le sue domande, alcune davvero ficcanti e tempestive, sono state solo un pretesto per disinnescare la zuffa dei due anziani signori, irascibili e sfrontati come due vecchietti che litigano in coda al supermercato o alla posta. C’è però da dire che il presidente nuotava nel suo elemento e nessuno, né i suoi fan né i suoi detrattori, è rimasto stupito dal fragore delle sue sortite. Sbruffone, teatrale e arrogante come sempre, ha messo in campo tutto il campionario “trumpiano”, tutta la candida indifferenza di fronte alle manifeste bugie che ha regalato al pubblico. In particolare quando si è parlato della sua lunare dichiarazione dei redditi. Anche la strizzata d’occhio ai suprematisti bianchi che si è rifiutato condannare fa parte del repertorio, della propaganda a cui il tycoon ci ha abituati negli ultimi 4 anni. Diversi osservatori, soprattutto europei, hanno sottolineato quanto poco sia carismatico Joe Biden, un tratto costante che lo accompagna dalla gioventù e dalle brucianti sconfitte rimediate alle primarie del partito democratico, quando timidamente provò la scalata alla Casa Bianca. Il corpo a corpo con il rivale è stata una evidente forzatura, come se nel suo staff gli avessero imposto di congelare il carattere mite e tranquillo per scendere al livello di The Donald, modalità ”lotta nel fango”. L’effetto è straniante, quel che doveva apparire bellicoso e “virile” è stato stridulo e incerto, un attore minimalista costretto a recitare sulla cresta dell’enfasi con risultati a tratti imbarazzanti. Ci ha pensato il suo antagonista a facilitargli il compito. Sembra quasi un destino: andare avanti per i demeriti altrui e non per le proprie qualità. Anche la candidatura alla presidenza è figlia dell’assenza di avversari. Bernie Sanders è stato liquidato come «troppo a sinistra» dal corpo intermedio del partito e le nuove stelle liberal come Alexandria Ocasio Cortez ancora troppo inesperte, mentre tra i dignitari dem e tra le vedove di Hillary Clinton nessuna personalità di rilievo è emersa a contrastare la corsa di Biden. Che alla fine del dibattito, in uno slancio di sincerità e di realismo ha detto l’unica cosa sensata da dire nella sua posizione: «Se non volete altri 4 anni di Trump votatemi». I sondaggi pare che gli diano ragione: oltre dieci punti di vantaggio. Gli stessi che aveva Hillary nell’ottobre del 2016 tanto per intenderci.